Published: Jul 17, 2021 by
अनर्थका मन्त्राः
anarthakā mantrāḥ (Kautsa)
परोऽक्षकामा हि देवाः
paro’kṣakāmā hi devāḥ (śatapatha brāhmaṇa, 14, 1, 1)
I mantra vedici e i rituali vedici NON hanno significato.
È difficile credere, pensare che un mantra o un rituale NON abbiano significato.
Ma come?
Ce lo spiega Frits Staal in un preziosissimo libretto di poco più di cento pagine, edito dal Collège de France: “Jouer avec le feu”, distribuito in esclusiva dalle Éditions Broccard, Paris.
Negli allegati trovate un video dell’ati rudra maha yajña, che si è tenuto ai piedi del monte arunacala, incarnazione di śiva, nella città di Tiruvannamalai nel 2016, a cui ho partecipato. È la fine del rituale durato 11 giorni. Siamo tutti barbuti, poiché ai ṛtvijaḥ era proibito il radersi per tutto il periodo del rituale. L’officiante era il grande e compianto śrī Nanjunda Dixit. La foto ritrae śrī Dixit Mama, come veniva chiamato. Un’altra foto durante la processione per l’installazione del lingam.
L’ultima foto è di un altro yajña che si è volto alle nostre latitudini, a Locarno, presso la casa di un yajamāna. L’officiante il bramino Karthik Ragavan, (Intraining Systems supervisor presso le Nazioni Unite a Ginevra).
(traduzione mia dal francese)
“L’interpretazione più comune e generale del rituale è l’interpretazione semantica: è generalmente accettato come ovvio che i riti significano qualcosa, mitologia, struttura sociale o altro. Tuttavia, nel campo del rituale vedico, le interpretazioni mitologiche come quelle che si trovano nella letteratura dei brāhmaṇa sono generalmente arbitrarie e inutili. Come d’altronde lo afferma Louis Renou (1953, 16):
“Bisogna accontentarsi di teorie molto generali se si vuole evitare spiegazioni arbitrarie come quelle avanzate negli antichi “brāhmaṇa”, dove si trovano racconti inventati sull’origine di diverse particolarità del cerimoniale liturgico. Questi resoconti meritano molta attenzione, ma non si può accettare il nidāna o bandhu, cioè la connessione invisibile che essi tentano di stabilire. Questo è manifestamente il prodotto della mente dei sacerdoti. Nei testi, si riconosce che ad un certo punto, la comprensione deve fermarsi. Si dice: paro’kṣakāmā hi devāḥ (‘Gli dei amano ciò che è oltre il visibile’)”.
Ecco un semplice esempio di un’interpretazione caratteristica dei brāhmana. I riti del soma sono definiti da una serie di recitazioni chiamate śastra. La maggior parte di queste recitazioni sono precedute da una narrazione chiamata puroruc: “che brilla di fronte o a est”, di struttura ABBA come nel seguente esempio:
agnir jyotir jyotir agniḥ - agni luce luce agni
indra jyotir jyotir indraḥ - indra luce luce indra
sūryo jyotir jyotiḥ sūryaḥ - sūrya luce luce sūrya
Interpretando una di queste storie, il Kauṣītaki Brāhmana afferma:
“Il puroruc è ciò che dà luce (cioè il sole), perché brilla in avanti. Altrimenti, è il respiro e il śastra è il corpo. Altrimenti è il corpo e il śastra è la progenie e il bestiame” (Sreekrishna Sarma in Agni II. 679; Gonda 1981. 63. nota 9).
Questi esempi - e ce ne sono migliaia - dimostrano che gli autori dei brāhmaṇa non avevano familiarità con le interpretazioni dei riti e li trattavano in modo piuttosto disinvolto. Se uno straniero o un essere venuto dallo spazio studiasse le interpretazioni date ai rituali dagli studiosi contemporanei - siano essi antropologi, fenomenologi o storici della religione - avrebbe la stessa impressione.
Quello che abbiamo detto sull’interpretazione dei rituali si applica anche all’interpretazione dei suoni rituali, cioè (nel campo vedico) i mantra. C’è sempre stato un tentativo di dare ai mantra vedici, così come ai successivi mantra tantrici, un significato o un valore simbolico, sia in India che in Occidente. Tuttavia, ci fu, almeno in India, una famosa eccezione: l’antico ritualista Kautsa, vissuto probabilmente alla fine del periodo vedico, difese la tesi che “i mantra non hanno significato” (anarthakā mantrāḥ).