ब्रह्मन्

brahman

da Enciclopedia delle religioni vol. 9, Induismo, a cura di Mircea Eliade, Jaca Book
articolo di JAN C. HEESTERMAN

Negli inni vedici il nome neutro brāhman indica il principio cosmico o il potere insito nelle espressioni sacerdotali o ispirate. Come tale si ritenne che fosse presente nei veda, quando vennero fissati in un corpo di testi. La forma maschile della parola, brahmān, denota il sacerdote, ossia colui che conosce e può recitare tali parole. Nel tardo rito vedico standardizzato è uno dei quattro sacerdoti che, quasi sempre silenzioso, sorveglia e corregge gli errori durante il sacrificio. Il termine derivato brāhmaṇa ha due significati. Uno indica i testi vedici in prosa che espongono il rito solenne (śrauta). L’altro si riferisce a colui che appartiene alla prima delle quattro caste (varṇa; in italiano, brahmano o brahmino). Infine, brahman o brahmā è il nome del dio della creazione nell’Induismo.

Etimologia. Nonostante i numerosi e svariati tentativi di ricostruire la derivazione linguistica del termine brahman, la questione rimane irrisolta. George Dumézil ha difeso ripetutamente e con vigore il vecchio paragone con il latino flamen. Louis Renou suggerisce che derivi dalla radice barh (o brah), che significherebbe parlare per enigmi. Jan Gonda vuole farlo derivare dalla radice brh («essere forti»), ipotesi che è sostenuta dagli antichi esegeti indiani e che ha il vantaggio di unire le due divinità vediche bṛhaspati e brahmaṇaspati, che sono largamente interscambiabili. Paul Thieme rifiuta la fiducia che Gonda pone nell’esegesi tradizionale indiana, parte dal significato base di «forma, formulazione» e tenta di connetterlo al greco morphē. Tutte queste ipotesi etimologiche incontrano delle difficoltà formali o semantiche. Molto dipende dal significato basilare che si vuole vedere. Maggiormente consensuale è l’ipotesi che ricerca il significato base nella sfera della parola o formula (sacra), in accordo con numerose prove testuali. Il problema principale risiede nella interpretazione multipla dell’elemento brah, che rende frustranti i tentativi di arrivare a una soluzione soddisfacente.

Mitologia. Nei brāhmaṇa e in particolare nelle upaniṣad, il brahman venne a designare il principio eterno e impersonale, prima causa dell’universo. Nella cosmogonia vedica, tuttavia, esso non svolge un ruolo distinto. La sua connessione, nella forma del dio brahma, con il mito cosmogonico del germe o uovo d’oro (hiraṇyagarbha) è postvedica. Nelle Leggi di Manu (l ,5ss.) si dice che l’uovo d’oro sia nato dal seme di brahmā, depositato nelle acque primordiali. Dopo un periodo allo stato embrionale, brahmā nasce dall’uovo d’oro nella forma di uomo cosmico, puruṣa-nārāyaṇa. Il punto essenziale di questo e altri simili passaggi sta nel fatto che brahmā, in quanto il solo principio e causa dell’universo, è «esistente in se stesso» (svayaṃbhu) e può quindi mettere in moto il processo cosmogonico solamente riproducendo se stesso. Sempre nell’ambito dell’autoriproduzione troviamo il tema dell’incesto di brahmā con sua figlia vāc («la parola»), motivo che deriva dal dio creatore dei veda prajāpati, Signore di tutte le creature. Benché fuso con l’uomo cosmico, puruṣa, e con Prajapati, brahmā non ha dato vita a un mito cosmogonico specificatamente proprio. Nella cosmologia induista è una divinità che presiede, ma è inattiva - non diversamente dal sacerdote brahmano del rito sacrificale - oppure è un demiurgo, che solo nella seconda fase della cosmogonia assume un’identità autonoma, quando il mondo fenomenico comincia a manifestarsi. Allora lo troviamo seduto sul fiore di loto che nasce dall’ombelico di viṣṇu o ancora nasce dall’uovo cosmico (brahmāṇda).

Nel pantheon induista, brahmā è unito, come il centro statico, alle supreme divinità dinamiche śiva e viṣṇu nella trimurti, la triplice forma del divino. Iconograficamente viene rappresentato con quattro teste barbute e quattro braccia. I suoi attribuiti sono i quattro veda, il recipiente per l’acqua, il cucchiaio delle offerte, il rosario (emblemi del brahmano), il loto e lo scettro. La sua cavalcatura è un’oca, haṃsa. La per altri versi copiosa mitologia induista non presta molta attenzione a brahmā, né vi sono chiare prove di un culto. Essenzialmente, brahman è rimasto un concetto astratto, rielaborato nelle upaniṣad e dalla filosofia monistica del vedanta.

Sviluppo semantico. Hermann Oldenberg ha riassunto il significato generale di brahman (neutro) come formula sacra e il potere magico che ne è inerente («die heilige Formel und das sie erfüllende Fluidum der Zauberkraft», 1917, II, p. 65). Pur essendo appropriata al contesto vedico, questa definizione lascia una grande distanza tra la formula sacra e il più tardivo significato di principium omnium. Inoltre, il brahman vedico, lungi dall’essere eterno e immutabile, si dice che sia stato fatto o «costruito». L’interpretazione di Gonda del brahman come «potere», dalla radice verbale brh («essere forti»), è utile, ma troppo generica per risolvere in modo preciso il problema. L’analisi di Thieme porta a «forma, formulazione» (Formung, Gestaltung, Formu- lierung) come suo significato originale, soprattutto nell’accezione di formulazione poetica (improvvisata) e poi vera formulazione (stereotipata), e riempie abbondantemente il vuoto lasciato da Oldenberg. Renou si concentra su una particolare dimensione della formulazione, oltre a fornire una dubbia etimologia. A suo parere, il brahman si distingue per la sua natura enigmatica o paradossale. Il brahman è, quindi, la formulazione dell’enigma cosmico, un enigma a cui non si può dare una risposta diretta, ma che si può solamente formulare in termini paradossali che lasciano inespressa la risposta - la connessione nascosta (bandhu, nidāna) tra i termini del paradosso. Nella definizione calzante di Renou, il brahman è «énergie connective comprimée en énigmes» (1949, p. 43).

Bisogna considerare anche un altro elemento per fissare l’ampiezza semantica del brahman, ossia la contesa verbale. Questo elemento è mantenuto, sebbene in una forma fissa e ritualizzata, nel brahmodya del rito vedico, soprattutto nel sacrificio del cavallo (aśvamedha). Esso consiste in una serie di giri di sfide e risposte verbali. A turno due contendenti si pongono reciprocamente domande enigmatiche. Il senso della contesa degli enigmi è mostrare di avere «visto», di avere capito il «nesso» nascosto rispondendo con un enigma simile, ancora più abilmente escogitato. Colui che resiste più a lungo e riesce alla fine a far rimanere in silenzio l’avversario è il vincitore, il vero brahman, padrone del nesso nascosto. Di qui l’importanza del silenzio segnalata da Renou. Nell’elaborato brahmodya del sacrificio del cavallo l’ultimo giro è concluso dal sacerdote brahmano, apparentemente vincitore, che afferma di se stesso «questo brahman è il cielo più alto della parola» (brahmāyaṃ vācaḥ paramaṃ vyoma). Con l’ultimo espediente, dunque, l’uomo, come concorrente, deve collocarsi nel varco aperto dell’enigma cosmico non risolto e confermare se stesso come il «nesso» vivente che tiene unito il cosmo.

Il brahmodya originario non era quindi un innocuo gioco degli enigmi, ma una questione di vita e di morte. Tutto questo ancora traspare nei dibattiti simili al brahmodya delle upaniṣad, dove il concorrente perdente, che non si arrendeva all’avversario più forte e continuava a interrogarlo, pagava la sua spavalderia con la vita, più precisamente con la sua testa. La contesa del brahmodya si pone nell’ambito di altre competizioni, come la corsa dei carri, che continuano ad esistere in una forma fissa e ritualizzata. In effetti, il sacrificio vedico stesso sembra essere stato originariamente una gara pericolosa e violenta per i beni della vita. Il sacrificio vedico rituale, così come i testi in prosa lo descrivono, è comunque una procedura pacifica, ordinata minuziosamente, dove non c’è spazio per avversari e competizioni. È un affare che riguarda solamente l’individuo che compie il sacrificio.

Questo cambiamento fondamentale è espresso in modo interessante in un mito ritualistico che narra della competizione sacrificale decisiva tra prajāpati e mṛtyu o morte (jaiminīya brahmaṇa 2,69-2,70). prajāpati conquista la vittoria finale perché riesce a «vedere» l’analogia, che gli consente di assimilare la panoplia sacrificale dell’avversario e di eliminarlo quindi in maniera definitiva. Conclude il testo: «da allora non vi furono più contese sacrificali».

Ciò significa anche che la formulazione dell’enigma cosmico della vita-morte, con il suo nesso nascosto, venne rimpiazzata da affermazioni semplici e perentorie di equivalenza, che stabilivano l’identificazione degli elementi del microcosmo e del macrocosmo con quelli del rito standardizzato. Le cosiddette formule dei «quattro hotṛ» (caturhotṛ) sono ancora ritenute essere «il supremo brahman segreto degli dei» e il loro contesto originario sembra essere stato la contesa verbale. Così come vengono fornite dai testi non sono altro che una serie di corrispondenze («il pensare è il mestolo, il pensato è il burro chiarificato, la parola è l’altare…») senza mistero o enigma, che devono essere apprese e recitate meccanicamente. La tensione dinamica del nesso nascosto si è ripiegata su una corrispondenza statica e semplice. L’incerto risultato della contesa è stato sostituito dalla conoscenza ritualista di «colui che conosce così» (ya evam veda), ovvero dall’identificazione che concentra il tutto dell’universo nel processo del rito e, in definitiva, nel singolo sacrificio.

Nell’ambito dello sviluppo e del consolidamento del rituale il brahman passa dalla formulazione visionaria dell’enigma del cosmo a includere l’immutabile e ormai fissato corpus dei testi vedici. Da verità soggettiva del poeta visionario diventa verità oggettiva della legge dell’universo sovrumana e trascendente, che si realizza nel rituale ed è strutturata dall’identificazione. Ciò comporta che la funzione del brahman (maschile), ossia colui che conosce e recita il brahman (neutro), venga ristretta a quella quasi del tutto silenziosa del sacerdote brahman del rito, mentre il brāhmaṇa diventa idealmente il veicolo umano del veda (di qui l’enfasi sulla sua preservazione orale e sulla trasmissione da parte del brahmano).

Allo stesso tempo, il brahman mantenne la sua stretta connessione con il verbo, dando adito alle posteriori speculazioni sulla parola primordiale come principio cosmico śabda-brahman) e alla nascita della filosofia del linguaggio, come anche alle descrizioni grammaticali.

D’altra parte, l’identificazione rese possibile concentrare il complesso del procedimento rituale parlato e attuato nella singola persona di colui che compie il sacrificio, che in tal modo interiorizza il rito nel suo complesso, ovvero l’ordine cosmico trascendente, e diventa una sola cosa con il brahman. Questo era già stato anticipato, come abbiamo visto, dal brahman che si identificava con il «cielo più alto della parola». Tale evoluzione comporta, con le upaniṣad, la dottrina dell’unità dell’atman, il principio dell’identificazione dell’«anima» individuale con il brahman, che diede vita alla filosofia monistica del vedanta.

Bibliografia

La panoramica più originale sul brahman è presentata dal testo di L. Renou e Liliane Silburn, Sur la notion de brahman, in «Journal asiatique», 237 (1949), pp. 7-46, rist. nel loro volume L’lnde fondamentale, Paris 1978.]. Gonda, Notes on Brahman, Utrechr 1950 approfondisce l’analisi antropologica sul concetto del potere. Questo testo venne analizzato criticamente, in base ad una bilanciata considerazione degli sviluppi semantici, nello studio di P. Thieme, Brahman, in «Zeitschrift der Deutschen Morgenlandischen Gesellschaft», 102 (1952), pp. 91-129, rist. nella sua opera Kleine Schri/ten, l, Wiesbaden 1971. Per una trattazione delle posizioni di Gonda e di Thieme, cfr. H.P. Schmidt, Bṛhaspati und lndra, Wiesbaden 1968, pp. 16-22, 239ss. Il contesto verbale è trattato in J.C. Heesterman, On the Origin o/ the Nàstika, in «Wiener Zeitschrift fi.ir die Kunde Sud- und Ost-asiens, 12-13 (1968-1969), pp. 171-85, riv. e rist. nell’opera dello stesso autore The Inner Con/lict o/ Tradition, Chicago 1985. Per l’equazione /lamen-brahman, cfr. G. Dumézil, Flamen-Brahman, Paris 1935, e «Revue de l’histoire des religions», 38-39 per quanto concerne le risposte di Dumézil alle critiche sollevategli. Per le posizioni sostenute da Oldenberg, cfr. H 01- denberg, Die Religion des Veda, Stuttgart 1917, e Kleine Schriften, Wiesbaden 1967, pp. 1127-56. Una panoramica critica del- le varie etimologie è contenuta nel testo di M. Mayrhofer, Kurzgefasstes etymologisches Worterbuch des Altindischen, 11, Heidel- berg 1963, pp. 453-56.

Gli sviluppi filosofici e concettuali dello śabdabrahman vengono trattati nel volume di Madeleine Biardeau, Théorie de *la connaissance et philosophie de *la parole dans le brahmanisme classique, Paris 1964.