Anquetil-Duperron

Published: Sep 16, 2020 by

Anquetil-Duperron namaḥ.

Le origini della conoscenza del sanscrito in Europa.

Il 19 gennaio del 1805 si spegneva, eremita, all’età di 74 anni, nel completo oblio e quasi cieco, Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron, studioso decisamente solitario che rimane una delle figure fondamentali per la conoscenza delle lingue orientali e in particolare del sanscrito in Occidente.

Se l’ottocento e il novecento in Europa furono ricchi di eminenti studiosi, straordinarie ricerche e di conoscenza sull’antica cultura e lingua dell’India, fu grazie senza ombra di dubbio a Anquetil-Duperron.

Nato a Parigi nel 1731, epoca in cui cultura e lingua dell’India erano, a dir poco, poco conosciute, studia l’arabo e il persiano e incappa in alcune pagine dell’Avesta. Se ne innamora e decide di andare, ad ogni costo, là dove questi testi hanno avuto origine.

Privo di risorse finanziarie si arruola come soldato nella Compagnia francese delle Indie e accosta a Pondichéry il 10 agosto del 1755, all’età di 24 anni! Trascorre sei anni in India studia il sanscrito e scopre i veda e le upaniṣad. Nel marzo del 1761 porta in Europa 180 preziosi manoscritti che deposita alla Biblioteca del re.

Nel 1763 viene nominato à l’Académie des Belles Lettres. Pubblica innumerevoli volumi, tra cui la traduzione dell’Avesta in tre volumi, che suscita non poche polemiche e le critiche di Voltaire. Nel 1804 pubblica la prima traduzione assoluta, in latino, delle upaniṣad in due volumi: “Oupnek’hat ou Oupanishad”, opera che ha influenzato, tra l’altro, non poco la filosofia di Shopenhauer.

Nel “Colloquio con C.G. Beck” del marzo 1857, Shopenhauer scrive:

“Legga, ora, anche i meravigliosi scritti della sapienza indiana, che le raccomando caldamente, e così lei avrà conosciuto tutto quello che il lettore dovrebbe sapere per capire appieno le mie opere […] le raccomando soprattutto, per uno studio più approfondito, le upaniṣad, che può trovare, tradotte in latino da Anquetil-Duperron, nella biblioteca civica.

E in Parerga e Paralipomena (Adelphi,Milano,1998) Shopenhauer scrive:

Le upaniṣad sono l’emanazione della più alta saggezza umana […] da ogni pagina ci vengono incontro profondi pensieri, originali e sublimi, mentre un’elevata e sacra serietà aleggia su tutto. E’ la lettura più profittevole ed edificante che sia possibile in questo mondo: essa è stata la consolazione della mia vita e lo rimarrà fino alla mia morte .

Ai funerali il grande orientalista Sylvestre de Sacy gli rese un solenne omaggio.

I documenti che ha portato dall’India, le sue traduzioni, i suoi studi hanno permesso la nascita dell’indianismo e la scoperta in occidente dei testi e del pensiero indiano più antico, oltre ad aver aperto la via alle decisive ricerche di Bournouf e Darmsteter.

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vānaprastha
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van- , vb. cl. 1, piacere, amare, sperare, desiderare; ottenere, acquisire; conquistare, vincere;

liṅgam
liṅgam

“Generalmente la centralità nei templi dedicati al Dio spetta al liṅga. Esiste una molteplicità di liṅga. Rappresentazione della potenza allo stato puro prima e nonostante la manifestazione, il liṅga è l’emblema per eccellenza di śiva, esso rappresenta parzialmente l’energia sessuale e la procreazione, ma è soprattutto potenza distruttrice: se il liṅga, a causa di una maledizione, si stacca dal corpo di śiva e cade a terra l’universo si spegne o comincia bruciare ogni cosa, finché non viene posta nella yoni di parvatī ove la sua forza distruttrice si placa; la yoni rappresenta la base su cui il liṅga è istallato, simbolo della śakti con la quale il Dio è perennemente unito. Nei pancamukha-liṅga (liṅga con cinque volti) ci sono in realtà quattro volti, il quinto è il liṅga come forma trascendente di śiva. Nei sancta sanctorum dei templi i la mūrti che si incontra più frequentemente non è una vera e propria mūrti, bensì il liṅga che prima di essere un oggetto concreto di culto è il segno di una Realtà sottile che permea tutte le cose: “il liṅga è nel fuoco per coloro che si dedicano ai riti, nell’acqua, nel cielo, nel sole per gli uomini saggi, nel legno e in altri materiali solo per gli sciocchi; ma per gli yogin è nel proprio cuore. (īśvara-gītā, Il Canto del Signore [śiva]). Gli śivaliṅga sono infiniti, dice lo śiva-purāṇa, e l’intero universo è fatto di liṅga giacché tutto è forma di śiva e null’altro esiste realmente; il liṅga in altre parole è il brahman (īśvra-gītā 10, 1 e 3).”