Published: Oct 31, 2021 by devadatta
dharma # mokṣa
Tratto da “Guru” di Antonio Rigopoulos, Carocci Editore, 2009, pp. 98-99.
Antonio Rigopoulos, professore di indologia e sanscrito presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, riassume così il ribaltamento di paradima operato dalle upaniṣad:
“II ribaltamento di paradigma operato da questa nuova teologia, tanto dal punto di vista ideologico quanto dello stile di vita, può essere così riassunto:
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al primato del dharma nel dominio del grāma, d’una communitas volta alla vita buona e ordinata nel mondo (loka), s’oppone il primato del mokṣa. dell’ultramondano (lokottara) esorbitante il samsāra, da attingersi da parte d’ogni singolo individuo nel “non luogo” che è l’aranya. S’osservi come l’opposizione dharma/mokṣa, che si riflette nell’inferiorità della pratica del dharma rispetto alla liberazione entro la gerarchia dei fini umani, non si riscontra invece nel buddhismo, ove la nozione di dharma è valorizzata quale suprema dottrina salvifica, via al nirvāna;
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la pratica sacrificale è svalutata e rigettata: l’auctoritas dello specialista del rito si contrappone l’auctoritas carismatica dell’asceta. L’atto rituale, il karman per antonomasia, è giudicato inferiore e assicurante nel migliore dei casi un bene transeunte. Si viene dunque a insinuare l’idea che i Veda stessi non siano sapienza, ma veicolino piuttosto il suo contrario. Il karman nel suo complesso è assimilato all’ignoranza (avidyā) in quanto alimentante il saṃsāra. Viceversa, l’immobilità del complesso mente-corpo, lo svuotamento della psiche e le privazioni dell’ascesi sono ritenuti viatico alla gnosi e alla liberazione;
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al desiderio di conseguire fini mondani e d’attingere il summum bonum dell’immortalità s’oppone il distacco radicale (vairāgya) da tutto in vista del mokṣa, sola fonte di beatitudine (ānanda-, sullo sviluppo semantico di questo termine radicato nell’esperienza dell’orgasmo cfr. Olivelle, 1997b): i mondi divini, essendo anch’essi interni al dominio della trasmigrazione e perciò soggetti alla legge dell’universale cambiamento, sono avvertiti come sorta d’aurea prigione per i quali non si può che nutrire sovrana indifferenza;
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al dovere del matrimonio e del procurarsi una discendenza si contrappone la scelta celibataria volta alla pratica contemplativa. L’uscita dal secolo, la rinuncia alla dimensione familiare e castale è precondizione all’attingimento della conoscenza suprema (parā-vidyā)
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all’essere economicamente produttivi quali gṛha-stha, percependosi quali membri d’un gruppo, s’oppone la scelta individualistica di ritirarsi dalla società e dal clan d’appartenenza affermando il primato dell’inattività, della povertà e del non possesso giacché il rinunciante nulla possiede e nulla produce. Al modello di stabilità rappresentato dalla casa e dal villaggio si sostituisce il modello dell’itineranza, dell’incessante peregrinatio;”
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alla violenza (hiṃsā) perpetrata sugli animali, vittime del sacrificio, s’oppone uno stile di vita pacifico e non-violento (ahiṃsā), d’intima comunione con l’habitat naturale: si tratta di un’etica fondata in primis su virtù interiori piuttosto che su atti esteriori, sul primato del silenzio rispetto alla parola rituale.
Ancorché queste opposizioni siano reciprocamente dipendenti, ossia si costruiscano simbioticamente una in dipendenza dell’altra, il nuovo sistema teologico si propone in tutt’evidenza quale alternativo al precedente. Ne deriva che solo il rinunciante che abbia attinto il mokṣa è davvero maestro, il Maestro è Signore d’un mondo che ha perfettamente compreso e trasceso.