La teoria controversa dell'invasione ariana

La teoria controversa dell’invasione ariana

Il mito dell’invasione ariana dell’India, David Frawley

Una delle più diffuse teorie adottate per interpretare e genericamente per svalutare l’antica storia dell’India, è la teoria dell’invasione ariana. In accordo con questa impostazione, l’India sarebbe stata invasa e conquistata da tribù nomadi Indo-Europee di pelle chiara provenienti dall’Asia Centrale, intorno al 1500-1000 a.C., che avrebbero rovesciato una più antica ed avanzata civiltà Dravidica, di pelle scura, acquisendone molto di quanto più tardi sarebbe diventata la cultura Hindu. Questa cosidetta civiltà pre-ariana si sostiene sia provata dal gran numero di rovine urbane, di ciò che viene chiamata la “Cultura della valle dell’Indo” (poichè molti dei siti iniziali furono rinvenuti sul fiume Indo). La lotta tra la luce e l’oscurità, un’idea prevalente nelle più antiche scritture Ariano Vediche, fu così interpretata come riferimento alla guerra tra popoli di pelle chiara e pelle scura. La teoria dell’invasione ariana trasforma così i veda, le originali scritture dell’antica India e degli Indo-Aryani, in poco più che poemi primitivi di predoni incivili.

Questa concezione, del tutto estranea alla storia dell’India, sia del nord che del sud, è diventata una verità quasi indiscussa, fino ad oggi, nell’interpretazione della storia antica, anche dopo che quasi tutte le ragioni della sua supposta validità sono state confutate, ed anche i maggiori studiosi occidentali iniziano finalmente a metterla in discussione.

In questo articolo cercheremo di riassumere i punti principali che sono emersi su questo che è un argomento complesso, e che ho affrontato in modo approfondito nel mio libro “Gods, Sages and Kings: Vedic Secrets of Ancient Civilization“, cui rimando per chi è interessato a un ulteriore esame della materia.

La cultura della valle dell’Indo è stata definita pre-ariana per diversi motivi che appartengo in gran parte al pensiero dell’ambiente culturale europeo del diciannovesimo secolo, dove studiosi, seguendo Max Müller, avevano deciso che gli ariani erano giunti in India intorno al 1500 a.C. e, dal momento che la cultura della valle dell’Indo era precedente a questo, hanno concluso che doveva essere pre-ariana. Eppure, la logica alla base della datazione per la cultura vedica proposta da Müller, era del tutto speculativa. Max Müller, come molti studiosi cristiani della sua epoca, credeva nella cronologia biblica. Quest’ultima collocava il principio del mondo intorno al 4000 a.C. ed il diluvio intorno al 2500 a.C. Partendo da queste due date, sarebbe diventato difficile posizionare prima del 1500 a.C. gli ariani in India. Müller presume quindi che i cinque livelli dei quattro veda e upaniṣad furono composti ciascuno in un periodo di 200 anni prima di Buddha nel 500 a.C. Tuttavia, ci sono più cambiamenti di linguaggio nel Sanscrito Vedico stesso di quanti ve ne siano nel sanscrito classico dal Pāṇini [ndt: grammatico indiano del IV sec. a. C.; la sua grammatica sanscrita è Astadhyaya “Gli otto capitoli”], intorno al 500 a.C., o considerato anche un periodo di 2500 anni. E’ di conseguenza palese come ognuno dei periodi considerati avrebbero potuto presentarsi per un indeterminato numero di secoli e che il lasso di 200 anni è del tutto arbitrario ed è probabilmente anche troppo breve.

Da parte di questi studiosi, molti dei quali erano missionari cristiani non in sintonia con i veda, si ipotizzò che la cultura vedica fosse quella di nomadi primitivi provenienti dell’Asia Centrale. Quindi, essi non avrebbero potuto fondare alcuna cultura urbana come quella della valle dell’Indo. L’unico fondamento di detta ipotesi è stata una interpretazione piuttosto discutibile del ṛgveda che fecero, ignorando la sofisticata natura presente al suo interno.

Nel frattempo, è stato anche sottolineato che, a quanto pare, a metà del secondo millennio a.C., in Medio Oriente si verificarono una serie di invasioni indo-europee, a seguito delle quali popoli indo-europei, gli Ittiti, Mitanni e Cassiti conquistarono e governarono la Mesopotamia per alcuni secoli. Una invasione ariana dell’India sarebbe stata un’altra versione di questo medesimo movimento di popoli indoeuropei. Su questo presupposto, archeologi della cultura della valle dell’Indo, come Wheeler, pensarono che avrebbero trovato le prove a conferma della distruzione di tale civiltà provocata da un’invasione esterna.

Si era affermato che la cultura vedica fosse quella dei nomadi primitivi che erano giunti dall’Asia Centrale con i loro carri trainati da cavalli e con armi di ferro e che rovesciarono le città della più avanzata cultura della valle dell’Indo, con le loro tattiche di combattimento superiori. È venuto fuori che nessun cavallo, carro o ferro è stato reperito nei siti della valle dell’Indo.

Questa è stata la formazione della teoria dell’invasione ariana e da allora è rimasta così. Anche se molto poco è stato scoperto a conferma di questa teoria, c’è stata molta titubanza a metterla in discussione, tanto meno a rinunciarvi.

Ulteriori scavi hanno portato alla luce tracce di cavalli non solo nei siti della Valle dell’Indo, ma anche nei siti pre-Indu. L’uso del cavallo è stato quindi dimostrato presente per tutto l’arco della storia indiana antica. E’ stata anche trovata la prova dell’uso della ruota e, un sigillo Indu che rappresenta una ruota a raggi come usato nei carri, ha suggerito l’utilizzo dei carri.

Inoltre, è stata contestata l’intera ipotesi di nomadi con carri. I carri non sono i veicoli dei nomadi. Il loro utilizzo si è sviluppato solo in antiche culture urbane con molto terreno pianeggiante, e la piana del fiume del nord dell’India era il più adatto. I carri sono totalmente inadatti per attraversare montagne e deserti, come richiede la cosiddetta invasione ariana.

Che la cultura vedica utilizzasse il ferro e debba quindi datarsi in epoca successiva rispetto alla sua introduzione intorno al 1500 a.C., ruota attorno al significato del termine vedico “ayas”, interpretato col significato di ferro. ‘Ayas’ in altre lingue indo-europee come il latino o il tedesco di solito significa rame, bronzo o minerale in generale; non specificamente ferro. Non c’è ragione di insistere sul fatto che in tali precedenti periodi vedici, ayas significasse ferro, tanto più che altri metalli non sono menzionati nel ṛgveda (eccetto l’oro che è molto più comunemente riportato che non ayas). Inoltre, l’atharvaveda e il yajurveda parlano di diversi colori dell’ayas (come il rosso e il nero), comprovando che era un termine generico. Quindi è chiaro che ‘ayas’ indica genericamente un metallo e non specificamente il ferro.

Inoltre, anche i nemici del popolo vedico nel ṛgveda usano ayas, anche per costruire le loro città, come fa lo stesso popolo vedico. In conclusione non vi è nulla nella letteratura vedica utile a dimostrare sia che la cultura vedica fosse una cultura basata sul ferro, sia che non lo fossero i loro nemici.

Il ṛgveda descrive le proprie divinità come ‘distruttori di città’. Anche questo è stato usato per descrivere quella Vedica come una cultura primitiva non urbana che distrugge le città e le relative civiltà. Tuttavia, ci sono anche molti versi nel ṛgveda che parlano degli ariani con proprie città e protetti da anche un centinaio di città. Le Divinità ariane come indra, agni, sarasvatī e gli āditya sono lodati come città. Molti antichi re, compresi quelli di Egitto e Mesopotamia, avevano titoli come distruttori o conquistatori di città. Questo non li trasforma in nomadi. La distruzione delle città avviene anche nelle guerre moderne; questo non rende coloro che lo fanno dei nomadi. Chiaramente qui l’idea di cultura vedica come distruttrice ma non edificatrice di città si basa sull’ignoranza di ciò che i veda dicono realmente sulle loro città.

Ulteriori scavi hanno rivelato che la cultura della valle dell’Indo non fu distrutta da un’invasione esterna, ma come conseguenza di cause interne come, molto probabilmente, inondazioni. Più recentemente, in India è stato trovato un nuovo insieme di città (come i siti di Dwaraka e Bet Dwaraka da S.R. Rao ed il National Institute of Oceanography in India) che sono intermedie tra quelle della cultura Indu e dell’India antica successiva, come visitata dai greci. Questo può eliminate la cosiddetta età buia successiva dovuta alla presunta invasione aryana e mostra una continuità nell’occupazione urbanistica in India fin dall’inizio della cultura Indu.

L’interpretazione della religione presente nella cultura della valle dell’Indo – incidentalmente presa in considerazione da studiosi come Wheeler, che non erano studiosi di religioni e tanto meno dell’induismo – era che detta religione era differente da quella vedica e più probabilmente la più tarda religione śivaita. Tuttavia, successivi scavi nei siti della valle dell’Indo in Gujarat, come Lothal, e quelli in Rajsthan, come Kalibangan mostrano un gran numero di altari del fuoco come quelli usati nel culto vedico, insieme a ossa di buoi, cocci, gioieli di conchiglie e altri oggetti utilizzati nei rituali descritti nel ‘Vedic Brahmana’. Chiaramente la cultura della valle dell’Indo evidenzia molte pratiche vediche, dato di fatto che non può essere solo una coincidenza. Che alcune delle loro pratiche apparissero non-vediche a tali archeologi può essere attribuito, con tutta probabilità, alla loro inconprensione o mancanza di conoscenza della cultura vedica ed induista in generale, poiché il Vedantismo e lo Śivaismo hanno la stessa tradizione di base.

Dobbiamo ricordare che i reperti non hanno necessariamente un’unica interpretazione. Né la capacità di scoprire rovine dà necessariamente la capacità di interpretarle correttamente.

Si era ritenuto che il popolo vedico fosse stato di razza chiara come gli europei, in ragione dell’idea vedica di una guerra tra luce e tenebre; dove il popolo vedico veniva rappresentato come composto dai figli della luce o figli del sole. In realtà, questa idea di una guerra tra luce e oscurità esiste in molte culture antiche, incluse la persiana e l’egiziana. Perché allora non interpretiamo anche le scritture di questi ultimi come guerra tra popoli di pelle chiara e scura? È puramente una metafora poetica, non una statuizione culturale. Inoltre, in India non vengono trovate reali tracce di una tale razza.

Gli antropologi hanno osservato che l’attuale popolazione di Gujarati è composta più o meno dagli stessi gruppi etnici come rilevato presso Lothalin nel 2000 a.C. Analogamente, è stato accertato che l’attuale popolazione del Punjab è etnicamente la stessa della popolazione di Harappa e Rupar di 4000 anni fa. Linguisticamente la popolazione attuale di Gujarat e Punjab appartengono al gruppo linguistico Indo-Ariano. L’unica inferenza che potrebbe essere fatta emergere dalle prove antropologiche e linguistiche addotte su ciò, è che la popolazione Harappa nella valle dell’Indo e Gujrat nel 2000 a.C., era composta di due o più gruppi, avendo il più dominante fra loro una molto stretta affinità etnica con la popolazione di lingua Indo-ariana dell’India odierna.

In altre parole, non vi è alcuna prova basata sulla razza, di una tale invasione Indo-Ariana, ma solo di una continuità del medesimo gruppo etnico che tradizionalmente cansiderava se stesso Ariano.

Di fatto ci sono molti punti che dimostrano la natura vedica della cultura della Valle dell’Indo. Ulteriori scavi hanno mostrato che la grande maggioranza dei siti della cultura della valle dell’Indo erano a est, non ad ovest dell’Indo. Infatti, la più grande concentrazione di siti appare in un’area del Punjab e Rajsthan vicino alle rive asciutte degli antichi fiumi sarasvatī e dṛṣadvatī. Si dice che la cultura vedica sia stata fondata dal saggio Manu tra le rive dei fiumi sarasvatī e dṛṣadvatī. Il sarasvatī è lodato come il fiume principale (naditama) nel ṛgveda ed è il maggiormente menzionato nel testo. Si dice avere una grande massa d’acqua ed essere ampio, e di infinite domensioni. Il sarasvatī è detto essere “puro nel suo corso dalle montagne al mare”. Quindi il popolo vedico conosceva bene questo fiume e lo considerava come sua immemorabile patria.

Il Saraswati, come rivelano ora moderni studi del terreno, era in effetti uno dei più grandi, se non il più grande, fiume dell’India nei periodi antichi (prima del 1900 a.C.) e fu forse il più grande fiume in India nell’era preistorica (prima del 3000 a.C.). Nei primi tempi più antichi esso aveva drenato il sutlej, il yamuna e il ganga, i cui corsi erano molto diversi dagli attuali. Ad ogni modo, il fiume sarasvatī si prosciugò alla fine della cultura della valle dell’Indo (Harappa) e ben prima della cosiddetta invasione Aryana o comunque prima del 1500 a.C. In realtà questo può aver causato la fine della cultura dell’Indo. Come avrebbero potuto, ad ogni modo, sapere di questo fiume e stabilire la loro civiltà sulle sue sponde, se si era prosciugato prima che arrivassero gli ariani? Infatti il sarasvatī come descritto nel ṛgveda, una regione verde e fertile, sembra mostrare con maggiore precisione il fiume come era prima della cultura della valle dell’Indo che quando essa era già in declino. Nel brahmana e mahābhārata il sarasvatī è detto scorrere in un deserto e in quest’ultimo non raggiunge il mare. Il sarasvatī come fiume viene poi sostituito dal ganga ed è quasi dimenticato nella letteratura Puranica. Le fasi di siccità del fiume possono essere rintracciate nella letteratura vedica, mostrando che la gente vedica non è giunta solo durante l’ultima fase della vita del fiume.

L’esistenza del sarasvatī come un grande fiume era sconosciuta fino a recenti studi della terra. Il fatto che il sarasvatī vedico è stato tradizionalmente identificato solo con un minore rivo del deserto, è stato considerato precedentemente come prova della teoria dell’invasione sotto l’equivoco che come fiume originale vedico non avuto alcuna reale conferma in India, la sua posizione reale doveva allora essere stata in un altro paese come l’Afghanistan. Ora che il grande fiume indiano sarasvatī è stato trovato, l’ipotesi è stata neutralizzata. Se i fiumi in Afghanistan hanno nomi vedici è più probabile un overflow di popolazioni dall’India, non nell’altro senso, anche perché i fiumi Afghani non hanno la dimensione, posizione o possibilità di raggiunge il mare come il Sarasvati Vedico. Abbiamo già rilevato siti Harappa in Afghanistan che spiegherebbero la denominazione dei fiumi dalle più grandi controparti indiane.

Oggi, insieme a molti altri studiosi sia in India che in Occidente, sto anche proponendo quindi che la civiltà Harappa o Valle dell’Indo, sia rinominata ” civiltà sarasvatī,” o almeno “civiltà dell’Indo-sarasvatī.” Questo metterebbe fine a tutto questo equivoco , poiché il sarasvatī è il principale fiume dei veda. Le regioni dell’Indo e sarasvatī fino al mare, che erano il centro della cultura Harappa, sono anche le stesse regioni geografiche della cultura vedica, che dimostra la propria identità.

I testi vedici contengono interessanti saggezze astronomiche. Il calendario vedico era basato su osservazioni astronomiche degli equinozi e solstizi che cambiano periodicamente a causa della precessione della terra sul suo asse. Tali testi come il Jyotiṣavedāṅga parlano di un tempo quando l’equinozio di primavera era al centro della costellazione Nakshatra Aslesha (o un punto circa a 23 gradi 20 minuti del Cancro). Ciò sarebbe avvenuto intorno al 1400 – 1300 a.C.. Molti brahmana e il veda musta e l’atharva veda parlano dell’equinozio di primavera nel kṛttikā (Pleiadi; primi Taurus) e il solstizio d’estate (ayana) in magha (Leo precoce). Questo produce una data intorno al 2500 – 2400 a.C. circa. Ancora precedenti ere astronomiche sono citate, ma queste due hanno numerosi riferimenti a loro sostegno. Esse dimostrano che la cultura vedica esisteva a quel tempo ed aveva già un sofisticato sistema astronomico. Tali riferimenti sono stati semplicemente ignorati o ritenuti inconprensibili dagli studiosi occidentali perché esse determinavano una datazione per i veda, troppo precedente rispetto a quella che essi presumevano e non perché tali riferimenti non esistevano.

Un punto sollevato dagli studiosi occidentali era che non c’era nessuna prova archeologica a sostegno di tali posizioni e delle date rivelate. Ora vediamo che in effetti c’è tale evidenza archeologica attraverso la civilizzazione di Harappa o sarasvatī.

Se tali riferimenti astronomici fossero stati trovati in testi greci antichi, possiamo aggiungere, che sarebbero stati salutati come grandi conquiste scientifiche, tra le più grandi dell’umanità antica. È solo perché si sono verificati nei testi indù che non gli è stato dato giusto credito. Al contrario, ci viene detto che gli indù erano non scientifici, pregiudizio che è stato spesso una scusa per ignorare i successi scientifici menzionati nei veda.

Subhash Kak ha anche scoperto recentemente un codice astronomico nella struttura del ṛgveda che mostra una conoscenza dei periodi dei pianeti, come pure che riflettono un percorso a circa 22 gradi nord, o il punto utilizzato dal sarasvatī per immettersi nel mare.

Testi vedici come il śatapatha brahmana e aitereya brahmana che menzionano questi riferimenti astronomici, elencano un gruppo di undici Re vedici, compreso un certo numero di persone del ṛgveda, che vi si dice abbiano conquistato la regione dell’India da ‘mare a mare’. Terre degli Aryani vi sono menzionate dal Gandhara (Afghanistan) nell’ovest a Videha (Nepal) nell’est e a sud a Vidarbha (Maharashtra). Il popolo vedico era in queste regioni dall’equinozio kṛttikā o prima del 2400 A.C. Anche questi passaggi sono stati ignorati dagli studiosi occidentali e hanno sostenuto che i ‘Veda’ non contenevano prove di grandi imperi in India nel periodo vedico. Risulta chiaro un modello che ignora le prove letterarie o le male interpreta per suffragare l’idea dell’invasione ariana perché diventasse prevalente, anche al punto di cambiare il significato delle parole vediche per soddisfare questa teoria.

Secondo questa teoria, la gente vedica erano nomadi nel Punjab, provenienti dall’Asia centrale. Tuttavia, il ṛgveda stesso ha circa un centinaio di riferimenti all’oceano (samudra), così come decine di riferimenti alle navi e ai fiumi che fluiscono nel mare. Antenati vedici come manu, turvaśa, yadu e bhujyu sono figure dei flutti, salvati dal mare. La Divinità vedica del mare, varuna, è il padre di molti veggenti vedici e famiglie di veggenti come vasistha, agastya e i veggenti di bhṛgu. Per preservare l’ipotesi della invasione aryana, è stato assunto che il termine vedico (e più tardi sanscrito) per oceano, samudra, originariamente non significasse “oceano” ma qualsiasi grande massa di acqua, specialmente il fiume Indo nel Punjab. Qui il chiaro significato di un termine nel ṛgveda che tempo dopo è verificato dalla menzione di fiumi come lo sarasvatī che scorre, specificamente, in mare, è stato modificato per adattarlo alla teoria dell’invasione Aryana. Ma se guardiamo l’indice della traduzione del ṛgveda di Griffith, per esempio, che è stato fedele a questa idea che samudra in realtà non indica l’oceano, troviamo oltre 70 riferimenti al mare o oceano. Se samudra non significa oceano, perché era tradotto come tale? È quindi privo di basi individuare i Re vedici in Asia centrale, lontano da qualsiasi oceano o dal grande fiume sarasvatī, che costituiscono lo sfondo della loro terra e il simbolismo dei loro inni.

Una delle più recenti ipotesi archeologiche è che la cultura vedica è testimoniata da articoli di ceramica dipinta in grigio ritrovati nell’India del Nord, che appaiono risalenti intorno al 1000 A.C. e trovati nella stessa regione tra il ganga e il yamunā, cui si rapporta la successiva cultura vedica. Tale uso della colorazione grigia si rinviene infatti in siti sviluppatisi dopo l’inaridimento del fiume sarasvatī. Si è pensato che potesse essere una ceramica di qualità inferiore ed essere associata con l’uso del ferro che i Veda citano. Tuttavia, è ormai assodato che si tratta di uno sviluppo organico della ceramica indigena, non un’introduzione di presunti invasori. La verniciatura grigia di tale oggettistica rappresenta uno sviluppo della cultura indigena e non riflette una qualsiasi intrusione culturale proveniente dall’Occidente, cioè un’invasione Indo-aryana. Come si esaminerà meglio in seguito, è ulteriormente dimostrato che non esiste nessuna prova archeologica che conferma che sia avvenuta un’invasione Indo-aryana.

Degli aryani in Medio Oriente, in particolare gli Ittiti, ne sono state recentemente trovate tracce in quella regione, dove sono già menzionati intorno al 2200 a.C. Da qui, l’idea dell’invasione di aryani del Medio Oriente, è stato spinta indietro di alcuni secoli, anche se si è lontani dall’avere prove che possano dimostrare che la gente delle regioni montagnose del Medio Oriente fossero Indo-europee.

Gli ariani cassiti dell’antico Medio Oriente adoravano divinità vediche come surya ed i marut, come pure una denominata himālaya. Intorno al 1400 A.C., gli ariani Ittiti e Mitanni firmarono un trattato con il nome delle divinità vediche indra, mitra, varuna e nasatya. Gli Ittiti hanno lasciato delle scritte su un carro da guerra in sanscrito quasi puro. Gli Indo-Europei dell’antico Medioriente parlavano quindi Indo-aryan, non lingue Indo-Iraniane e ciò mostra una cultura vedica anche in quella parte del mondo.

La cultura della valle dell’Indo aveva una forma di scrittura, come evidenziato da numerosi sigilli trovati nelle rovine. Si è anche presupposto non essere vedica ma probabilmente dravidica, anche se questo non è mai stato provato. Ora è stato dimostrato che la maggior parte dei segni del tardo Indo sono identici a quelli dell’ancora più tardo Hindu Brahmi e che c’è uno sviluppo organico tra i due tipi di scrittura. I modelli prevalenti ora suggeriscono per tale lingua una base Indoeuropea.

E’ stato anche ipotizzato che la cultura della valle di Indo abbia derivato la sua civiltà dal Medio Oriente, probabilmente dai Sumeri, anche se in India non ne sono stati trovati riscontri.

Recenti scavi francesi a Mehrgarh hanno dimostrato che tutti i presupposti della cultura della valle dell’Indo possono essere trovati all’interno del subcontinente andando indietro a prima del 6000 A.C..

I dati archeologici attuali non supportano l’esistenza di una invasione indo ariana o europea dell’Asia meridionale in un qualsiasi momento in epoche pre protostoriche. Invece, è possibile documentare archeologicamente una serie di cambiamenti culturali che riflettono lo sviluppo culturale indigeno dalla preistoria ai periodi storici. La prima letteratura vedica non descrive un’invasione umana nella zona, ma una ristrutturazione fondamentale della società indigena. L’invasione indo-ariana come concetto accademico nell’Europa del 18° e 19° secolo, riflette l’ambiente culturale dell’epoca. I dati linguistici furono usati per convalidare il concetto che a sua volta è stato utilizzato per interpretare i dati archeologici ed antropologici.

In altre parole, la letteratura vedica è stata interpretata sul presupposto che ci fosse stata un’invasione ariana. Poi le testimonianze archeologiche sono state interpretate sulla medesima ipotesi. Ed entrambe le interpretazioni sono stati poi utilizzate per giustificarsi l’una con l’altra. Non è altro che una tautologia, un esercizio di pensiero circolare, che dimostra solo che se si ipotizza qualcosa come vera, si dimostra che è vera!

Un altro studioso occidentale moderno, Colin Renfrew, colloca gli Indoeuropei in Grecia già nel 6000 a.C. Egli suggerisce anche una possibile data anticipata per tale per la loro ingresso in India. Per quanto io possa essere a conoscenza, non vi è nulla negli Inni del ṛgveda che dimostri che la popolazione di lingua vedica era estranea a quest’area: questo viene piuttosto da un presupposto storico della “venuta” degli Indo-Europei.

Quando Wheeler parla della “invasione ariana della terra dei 7 fiumi, il Punjab”, non ha alcuna giustificazione, per quanto io possa vedere. Se si esaminano le dozzine di riferimenti nel ṛgveda ai 7 fiumi, non c’è nulla in loro che, a mio avviso, implica una invasione: la terra dei 7 fiumi è la terra del ṛgveda, la scena dell’azione. Né è implicito che gli abitanti delle città murate (compresi i dasyu) fossero più aborigeni degli ariani stessi.

Nonostante i commenti di Wheeler, è difficile vedere che cosa sia particolarmente non-ariano nella civiltà della valle dell’Indo. Invece Renfrew suggerisce che la civiltà della valle dell’Indo fosse in realtà Indo-Ariana, anche prima dell’era della valle dell’Indo:

Questa ipotesi, che i primi linguaggi Indo-Europei siano stati parlati nel nord dell’India, con il Pakistan e l’altopiano iraniano verso il VI millennio a.C., ha il merito di armonizzarsi simmetricamente con la teoria favorevole all’origine delle lingue Indoeuropee in Europa. Sottolinea, inoltre, la continuità della civiltà della valle dell’Indo, nella Valle dell’Indo e nelle zone adiacenti, dal neolitico antico attraverso e fino al suo fiorire.

Questo non significa che tali studiosi apprezzino o comprendano i veda, in questo senso il loro lavoro lascia molto a desiderare, ma che è chiaro che l’intero edificio, costruito intorno all’invasione ariana, sta cominciando a traballare da tutte le parti. Inoltre, non significa che il ‘ Rig Veda’ dati dall’era della valle dell’Indo. La cultura della valle dell’Indo ricorda quella del yajurveda e riflette il periodo pre-Indo in India, quando il fiume sarasvatī era più prominente.

I livelli della letteratura vedica si adattano perfettamente con questa sequenza:

  1. 6500-3100 A.C., Pre-Harappan, primi ṛgveda

  2. Periodo tra 3100-1900 alto Harappan , 3100-1900 A.C., dei quattro veda

  3. 1900-1000 A.C., tardo periodo vedico e brahmana, tardo Harappan

La sequenza di sviluppo nella letteratura non va parallelamente con una migrazione in India ma con lo sviluppo storico della civiltà in India dal sarasvatī al ganga.

L’accettazione di tali teorie creerebbe, nella nostra visione della storia, una rivoluzione sconvolgente come quella che nella scienza fu causata dalla teoria della relatività di Einstein. Renderebbe l’India antica, forse la più antica, la più grande e centrale delle antiche civiltà. Vorrebbe dire che la letteratura vedica si situa come la più grande e più antica del mondo antico, anche nel 1500 a.C. sarebbe il richiamo ad insegnamenti di alcuni secoli o migliaia di anni precedenti ad essa. Vorrebbe dire che i veda sono i nostri più autentici ricordi del mondo antico. Inoltre tenderebbe a convalidare il punto di vista vedico, nel senso che gli Indo-Europei e gli altri popoli ariani sarebbero immigrati dall’India, non che gli Indo-Ariani sono stati invasori dell’India. Infine, ciò confermerebbe la tradizione Indu secondo cui i Dravidi erano le prime propaggini del popolo vedico attraverso il saggio Agastya e non popoli di non ariani.

Nel concludere, è importante esaminare le implicazioni sociali e politiche dell’ipotesi di una invasione ariana:

– In primo luogo, è servita a dividere l’India in una civiltà Nord aryana e Sud dravidiana che sono state rappresentate come vicendevolmente ostili. Questo ha reso gli Hindù divisi ed è ancora fonte di tensioni sociali.

– In secondo luogo, ha dato all’ Impero britannico una scusa nella loro conquista dell’India. Potevano avanzare la pretesa di fare solo ciò che gli antenati ariani degli Hindù avevano precedentemente fatto millenni prima.

– In terzo luogo, è servita a rendere la cultura vedica più tarda e possibilmente derivante da culture mediorientali. Con la prossimità ed il rapporto dei secondi con la Bibbia ed il cristianesimo, questo poneva la religione Hindu come secondaria nell’evoluzione a Ovest della religione e della civiltà.

– In quarto luogo, ha permesso di assegnare alle Scienze dell’India una base greca, così da squalificare profondamente qualsiasi base vedica per la natura primitiva della cultura Vedica.

Questo ha screditato non solo i veda, ma le genealogie dei purana e la loro lunga lista di re prima del Buddha o kṛṣṇa sono rimasti senza alcun fondamento storico. Il mahābhārata, invece di una guerra civile in cui tutti i principali re dell’India parteciparono, come viene descritto, è diventata una scaramuccia locale tra i piccoli principi che fu poi esagerata dai poeti. In breve, ne veniva screditata la maggior parte della tradizione Hindu ed anche tutta la sua letteratura antica. Ha trasformato le sue scritture e saggi in fantasie ed esagerazioni.

Ciò ha conseguito uno scopo sociale, politico ed economico per la dominazione, dimostrando la superiorità della cultura occidentale e della religione. Ha fatto percepire agli Hindu che la loro cultura non era la grande cosa che i loro saggi ed avi avevano affermato che fosse. Ha reso che gli Hindu si vergognassero della loro cultura le cui basi non erano né storiche né scientifiche. Gli fecero capire che i grandi tratti della civiltà erano stati sviluppati prima in Medio Oriente e quindi in Europa e che la cultura dell’India era periferica e secondaria nel reale sviluppo della civiltà mondiale.

Un tale modo di vedere non è buona cultura o archeologia ma semplicemente imperialismo culturale. Gli studiosi vedici occidentali hanno realizzato nella sfera intellettuale, ciò che l’esercito britannico ha fatto per il discredito nell’ambito politico, dividere e conquistre gli Hindu. In breve, i motivi impellenti per la teoria dell’invasione Ariana non erano né letterari, né archeologici, ma politici e religiosi, il che vale a dire, non cultura ma pregiudizio. Tale pregiudizio può non essere stato intenzionale, ma una così profondamente radicata visione politica e religiosa facilmente annebbia e sfoca il nostro pensiero.

È un peccato che questo approccio non sia stato maggiormente messo in discussione, particolarmente dagli Hindu. Anche se studiosi vedici indiani come Dayananda Saraswati, Bal Gangadhar Tilak e Arobindo lo rifiutarono, la maggior parte dei Hindu oggi lo accettano passivamente. Essi generalmente consentono agli studiosi occidentali, generalmente Cristiani, di interpretare la loro storia per loro e abbastanza naturalmente l’induismo è ridotto ad un ruolo marginale. Molti Hindu accettano ancora, leggono o addirittura onorano le traduzioni dei veda fatte da tali studiosi, missionari cristiani, come Max Müller, Griffith, Monier Williams e H. H. Wilson. Accetterebbero i moderni Cristiani una interpretazione della Bibbia o della storia biblica fatta da Hindu desiderosi di convertirli all’induismo? In India le università, inoltre, utilizzano i libri di storia occidentali e le traduzioni Occidentali dei Veda che enunciamo tali posizioni che denigrano la loro cultura e paese.

Il mondo accademico occidentale moderno è sensibile alle critiche per i pregiudizi culturali e sociali. Per gli studiosi il prendere posizione contro questa parziale interpretazione dei veda provocherebbe infatti un riesame di molte di queste ipotesi storiche che non sopportano l’esame obiettivo. Ma se gli studiosi Hindu rimangono in silenzio o accettano passivamente l’errata interpretazione della loro propria cultura, tutto questo senza dubbio continuerà, ma non avranno nessuno da incolpare, se non sé stessi. Non è un problema da prendere alla leggera, perché il modo in cui una cultura si definisce storicamente, crea le prospettive con le quali è percepita nel moderno contesto sociale ed intellettuale. La tolleranza non consiste nel permettere una falsa visione della propria cultura e religione propagata liberamente. Questo e solo un tradire sé stessi.

Riferimenti

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  11. Aitareya Brahmana“, VIII.21-23; “Shatapat Brahmana“, XIII.5.4.
  12. R. Griffith, “The Hymns of the Rig Veda“, Motilal Banarasidas, Delhi, 1976.
  13. J. Shaffer, “The Indo-Aryan invasions: Cultural Myth and Archeological Reality“, from J. Lukas(Ed), ‘The people of South Asia’, New York, 1984, p. 85.
  14. T. Burrow, “The Proto-Indoaryans“, Journal of Royal Asiatic Society, No. 2, 1973, pp. 123-140.
  15. G. R. Hunter, “The Script of Harappa and Mohenjodaro and its connection with other scripts“, Kegan Paul, Trench, Trubner & Co., London, 1934. J.E. Mitchiner, “Studies in the Indus Valley Inscriptions“, Oxford & IBH, Delhi, India, 1978. Also the work of Subhash Kak as in “A Frequency Analysis of the Indus Script“, Cryptologia, July 1988, Vol XII, No 3; “Indus Writing“, The Mankind Quarterly, Vol 30, No 1 & 2, Fall/Winter 1989; and “On the Decipherment of the Indus Script A Preliminary Study of its connection with Brahmi“, Indian Journal of History of Science, 22(1):51-62 (1987). Kak may be close to deciphering the Indus Valley script into a Sanskrit like or Vedic language.
  16. J.F. Jarrige and R.H. Meadow, “The Antecedents of Civilization in the Indus Valley“, Scientific American, August 1980.
  17. C. Renfrew, “Archeology and Language“, Cambridge University Press, New York, 1987.

da “Arte in India” di Cinzia Pieruccini, ed. Einaudi

  1. Protostoria e grandi fasi storiche.

Dalle nevi dell’Himalaya al rigoglio dell’estremo meridione, altrettanto vari sono i popoli e le lingue che l’India ha conosciuto, accolto, e in larga misura amalgamato. Nel sud, cioè negli attuali stati del Karnataka, dell’Andhra Pradesh, del Telangana, del Kerala e del Tamil Nadu, si parlano tuttora le lingue cosiddette dravidiche (significa appunto «meridionali»), le cui parentele con altre famiglie linguistiche sono dubbie, ed è un’ipotesi verosimile che a questo ceppo linguistico appartenessero gli abitanti piú antichi del paese. Non abbiamo tuttavia prove certe su quale lingua parlassero gli abitanti della prima grande civiltà attestata nel subcontinente, che culminò all’incirca fra il 2600 e il 1900 a.e.c., e che dalla collocazione delle prime scoperte è nota come Civiltà dell’Indo, con riferimento al bacino del grande fiume nell’attuale Pakistan; la sua scrittura, se di scrittura si tratta davvero, non è stata ancora decifrata. Era questa una civiltà urbana molto avanzata che si è rivelata di estensione enorme, e un ampio dibattito è aperto sulla sua connessione con le successive fasi culturali del subcontinente. Certi ritrovamenti sembrano alludere agli sviluppi storici della religiosità e dell’arte hindu. A Mohenjo Daro, una struttura che è stata chiamata il «Grande Bagno» era verosimilmente usata a scopo rituale, come lo saranno le vasche dei templi hindu fino a oggi, e significativi appaiono il culto di divinità femminili e la rappresentazione su sigilli di una figura forse raccostabile a quello che nell’induismo sarà il sommo dio Shiva.

Dopo questa fase testimoniata da ritrovamenti archeologici eclatanti ma silenziosi, intorno al 1500 a.e.c. nella storia dell’India si apre, almeno secondo la ricostruzione accettata senza obiezioni dagli studiosi fino ad anni recenti, una fase letteraria grandiosa, ma avarissima di lasciti materiali. L’inversione è, di fatto, quasi paradossale. La letteratura è quella dei Veda, un vasto corpus di testi sacri, composti in una lingua indoeuropea che è una sorta di fase del sanscrito, considerati eterna rivelazione (shruti) e tramandati per molti secoli a memoria. Nel piú antico di questi testi, il Rigveda, sono glorificate divinità apparentabili con quelle dell’Iran e dell’Europa antica, e gli Arya, i «Nobili», come chiamano se stessi i detentori della cultura vedica, si presentano come coloro che espugnano le cittadelle dei nemici combattendo sui loro carri da guerra. Secondo un’interpretazione a lungo accreditata e che mantiene molti sostenitori illustri, gli Arya con la loro religione verrebbero dunque da lontano: estremo ramo orientale delle genti colonizzatrici anche dell’Europa, essi sarebbero calati in India attraverso i passi del nord-ovest in varie ondate a partire forse dalla metà del II millennio a.e.c., instaurando il proprio dominio sull’India settentrionale e sottomettendo gli abitanti originari, fra i quali anche gli ultimi eredi della decaduta Civiltà dell’Indo. In decenni recenti, tuttavia, questa teoria è stata messa in discussione: di fatto, la datazione dei Veda resta ipotetica, e l’archeologia dell’India settentrionale sembra indicare continuità e non fratture traumatiche. È stato fra l’altro suggerito che già gli abitanti della Civiltà dell’Indo fossero di lingua indoeuropea e che non ci sia stata nessuna migrazione o invasione, ma che si sia verificata una trasformazione culturale; e alle fasi piú antiche dei Veda è da varie parti attribuita un’epoca molto piú remota. In ogni caso nessuna teoria, compresa quella tradizionale dell’invasione bellicosa o meno, si presenta supportata da prove inoppugnabili.

da Michelguglielmo Torri, Storia Universale, Storia dell’India, Corriere della Sera, 2005, pag. 40-44:

Gli arya in India: la tesi dell’origine autoctona

Soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento, una nuo­va tesi è stata proposta concernente l’origine degli arya. Tale tesi, che sembra essere diventata assai influente in India, è fondata sull’affermazione che la patria originaria degli arya è, in realtà, il subcontinente indiano. I due punti di forza di questa teoria fanno riferimen­to al fatto che, ferma restando l’indicazione del 1000 a.C. come data di completamento della composizione degli inni raccolti nel ṛgve­da, non è affatto certo quale sia la data d’inizio. Questa potrebbe es­sere assai più antica del 1500 a.C. e risalire al 3000, al 4000 o, addirit­tura [Frawley 1992], al 7500 a.C.

Il primo elemento a supporto di questa tesi è tratto dall’astroar­cheologia, cioè dal fatto che all’interno dei Veda vi sia una serie di ri­ferimenti astronomici che, una volta decodificati, fanno pensare che i compositori degli inni vedici abbiano vissuto sotto un cielo caratte­rizzato da configurazioni stellari e da parabole solari caratteristiche di periodi ben più antichi del 1500 a.C. (come si è già detto, risalen­ti, secondo alcune ipotesi, addirittura all’VIII millennio a.C. ) . L’altro punto di forza della tesi in esame è la questione del Sarasvati. Se il fiu­me Sarasvati, di cui parlano numerosi inni del ṛgveda, era effettiva­ mente il Ghaggar-Hakra, allora la questione cruciale diviene stabilire quando questo possente corso d’acqua si prosciugò, dato che, chiaramente, i compositori del ṛgveda (anche se non quelli dei Veda po­steriori) dimostrano di aver visto il Sarasvati scorrere al pieno delle sue capacità idriche. Qui le valutazioni degli archeologi variano da quella più conservatrice [ad esempio quella del pakistano Muham­mad Rafique Mughal in Possehl s.d.], secondo cui il Sarasvati si pro­sciugò alla fine del II millennio (cioè un po’ prima del 1000 a.C., il che non entrerebbe in conflitto con la classica datazione del ṛgveda) , ad altre che spostano questa data considerevolmente indietro nel tempo, in molti casi addirittura prima dell’inizio della civiltà dell’In­do [Frawley 1992; Frawley 1993; Sethna 1992 ( 1980) ; Talageri 1993] .

Se queste ultime valutazioni sono corrette, e se sono corrette quel­le già riportate, derivate dall’astroarcheologia, ne discenderebbe che gli arya erano in India contemporaneamente alla, o addirittura pri­ma della nascita della civiltà dell’lndo. Dato che nel ṛgveda si parla dei molti re e delle cinque tribù arya che dimoravano lungo le rive del Sarasvati, il passo da fare era breve (ed è stato fatto) per sostene­re che gli arya non solo erano originari dell’India, ma che la stessa ci­viltà dell’lndo è stata opera loro. Una tesi, questa, che è sembrata tro­vare ulteriore supporto nel fatto che, per quanto siano stati in gene­ reinterpretati come espressione di una cultura nomade e pastorale, i Veda sono in realtà ricchi di riferimenti a edifici dai mille pilastri o dal­ le mille porte, a pilastri di bronzo coperti d’oro, a navi con cento re­mi e a navi impegnate nel traffico marittimo, mentre è ricorrente l’im­magine dell’oceano come termine di paragone per l’immensità del cielo [Singh 1995] . Si tratta, cioè, di una serie di riferimenti che - si è sostenuto - sarebbero difficilmente spiegabili se gli arya fossero effet­tivamente stati una popolazione puramente nomade e senza alcuna esperienza marittima.

Il dibattito sull ‘origine degli arya e le sue valenze politiche

Abbiamo accennato al fatto che la tesi secondo cui gli arya erano una razza indo-eruropea venne a suo tempo fatta propria dagli india­ni appartenenti alle caste brahmaniche per ragioni ideologiche, in quanto tale tesi li poneva sullo stesso piano razziale dei conquistatori britannici. In tempi recenti, a partire cioè dagli anni Ottanta del XX secolo, la tesi dell’origine autoctona degli arya è a sua volta diventata popolare in India, almeno fra gJi indù, di nuovo per ragioni ideolo­giche. E infatti in questa tesi che si riconosce il nazionalismo/fonda­mentalismo indù, la corrente politica in rapida ascesa a partire dalla fine degli anni Ottanta, la quale considera come indiani autentici so­lo gli indiani di religione indù. Dato che i monumenti letterari lasciati dagli arya, cioè i Veda, sono in genere considerati come il primo in­sieme di scritture rivelate dell’induismo, il fatto che gli arya siano ori­ginari dell’India si può leggere sia come prova dell’intrinseca «india­nità» degli indù, sia come dimostrazione della tesi che i non indù, in particolare i musulmani, sono in realtà degli intrusi, anzi, degli «stranieri» , che, a differenza degli arya/indù - i quali in India hanno sem­pre dimorato - sono in essa entrati (con la violenza) solo in un se­condo tempo. D’altra parte, così come nella tesi dell’origine indiana degli arya si riconosce la destra indù, in quella della migrazione dal­ l’Iran si riconoscono i laici e la sinistra marxista (la quale, in India, continua a rimanere influente, almeno a livello intellettuale) . La tesi della migrazione, infatti, dimostrerebbe che, fin dall’inizio, in India vi è stato il sommarsi di gruppi etnici diversi, nessuno dei quali è in­trinsecamente più indiano di altri, i quali, da tempo immemorabile, hanno convissuto più o meno armonicamente, nonostante tutte le di­ visioni etnico-religiose. Un fatto da cui la sinistra fa discendere la te­si secondo cui la miglior forma di governo per l’India è quella rap­presentata dallo stato laico, in grado di garantire tutti i gruppi etnico­ religiosi.

Il fatto che le due differenti tesi oggi prevalenti sull’origine degli arya si riallaccino a due opposte correnti politiche e ideologiche aiu­ta a spiegare perché il dibattito sulla questione abbia assunto toni d’insolita asprezza che, spesso, sono degenerati in reciproche sco­muniche. Ciò detto, la tesi dell’origine autoctona degli arya e dell’i­dentificazione degli arya con i vallindi sembra essere, a chi scrive, as­sai più debole della tesi della migrazione.

In primo luogo, infatti, bisogna considerare che «sarasvati» era un termine generico il quale, nell’indo-iraniano come nell’indo-arya, in­ dicava qualsiasi grande fiume. Ciò significa che l’identificazione del Sarasvati con il Ghaggar-Hakra non è al di là di ogni possibile dubbio. La seconda - e più sostanziosa - ragione di debolezza della tesi in esa­me è rappresentata dall’eccentricità dell’ipotetica direttrice di migrazione da parte degli arya (nel caso che essi fossero effettivamente autoctoni del subcontinente) . Che una migrazione debba esserci sta­ta, se non dall’Europa e dall’Iran all’India, almeno in senso opposto è un dato di fatto: in caso contrario non si spiegherebbe la diffusione delle lingue indo-europee dall’India all’Europa. Da questo punto di vista, ciò che appare strano è il fatto che - a parte, appunto, questa ipotetica migrazione degli arya verso occidente - in tutta la storia co­nosciuta non si è mai dato il caso né di un grande processo migrato­rio, né di un sostenuto e fortunato progetto di conquista che, par­tendo dalla valle dell’Indo (o dalla valle indo-gangetica nel suo com­plesso) , sia riuscito ad abbracciare la Persia e l’Asia centrale. Al con­trario, come si vedrà, la via inversa, dall’altopiano iranico o dall’Afghanistan alla vallata indo-gangetica, è stata più volte percorsa da eserciti conquistatori e, in alcuni casi, da intere popolazioni.

A parte questo, l’emigrazione degli arya verso occidente vorrebbe dire che una popolazione originaria della valle dell’Indo e della zona che oggi è il deserto del Rajasthan (ma che allora era una pianura abbondantemente irrigata dal Ghaggar-Hakra) non solo decise di al­lontanarsi da queste fertili terre ma, invece di seguire la facile via ver­so oriente rappresentata dalla vallata gangetica (a cui non faceva nep­pure ancora da barriera il deserto di Thar, allora inesistente) , per in­teri millenni (almeno a giudicare dalle datazioni proposte da Frawley e da altri) preferirono pervicacemente scalare i passi del nord-ovest o il passo di Bolan per avventurarsi in territori aridi e di difficile colo­nizzazione come l’Afghanistan o l’altopiano iranico. Poi, per ragioni che nessuno ha ancora spiegato, a partire dal 1000 a.C. gli indo-arya si resero conto (all’improvviso?) che discendere il Gange e lo Yamuna era più semplice che scalare i passi del nord-ovest e che la vallata gan­getica era più ricca e facilmente colonizzabile degli altipiani dell’Afghanistan e dell’Iran. Come si vede, si tratta di una tesi assai poco con­vincente.

Per quanto poi riguarda la pretesa identità arya dei vallindi, rima­ne il fatto che, nonostante tutti i possibili equilibrismi intellettuali, la civiltà dell’Indo e la cultura vedica appaiono profondamente diverse. La prima era una civiltà urbana, che conosceva la scrittura, che uti­lizzava una lingua dravidica e in cui l’animale di maggiore impor­tanza dal punto di vista rituale era il bue; la seconda, nonostante i ri­ferimenti al mondo urbano contenuti nei Veda, era una cultura di no­madi, che parlavano una lingua indo-europea e che non conosceva­no la scrittura, in cui l’animale di maggiore importanza era il cavallo (pressoché sconosciuto nella civiltà dell’Indo) .

In realtà, le prove addotte per sostenere l’origine autoctona degli arya e il loro ruolo come artefici della civiltà dell’Indo sembrano ri­dursi a suggerire il fatto che, con ogni probabilità, gli arya entrarono nel subcontinente prima, forse assai prima, di quanto si sia per lungo tempo ritenuto. Questo non esclude che gli arya siano convissuti con le popolazioni autoctone, in modo non diverso da quanto fecero per circa tre secoli quei popoli germanici che, a partire dal regno del­ l’imperatore Marco Aurelio, vennero ammessi come popoli foederati all’interno dei confini dell’impero romano. Così come la civiltà ro­mana convisse per alcuni secoli con popolazioni tribali, che parlava­no lingue non latine e che, ovviamente, non erano urbanizzate, non si vede perché qualcosa di analogo, anche se per un periodo forse considerevolmente più lungo, non abbia potuto verificarsi nel caso dei pastori arya e dei vallindi. Questo, ovviamente, spiegherebbe i ri­ferimenti nei Veda a grandi edifici, grandi navi e commerci marittimi. Dato che vallindi e arya convivevano sugli stessi territori e che, pro­babilmente, erano in rapporto simbiotico dal punto di vista econo­mico ( come si è detto essere la regola generale nel caso di contatti fra popolazioni nomadi e sedentarie più o meno allo stesso livello sul pia­no militare) , non si vede cosa ci sia di particolarmente strano nel fat­to che negli inni vedici ci siano riferimenti a una realtà che, per quan­to non loro, gli arya non potevano non conoscere.