ब्राह्मण आरण्यक च

brāhmaṇa āraṇyaka ca

da Enciclopedia delle religioni vol. 9, Induismo, a cura di Mircea Eliade, Jaca Book

I brāhmaṇa sono i più antichi testi in prosa della letteratura sanscrita, datati solitamente dalla prima metà o dalla metà del I millennio a.C. La loro cronologia, come quella della maggioranza dei testi classici indiani, è incerta e si basa su fattori esterni ugualmente insicuri, come accade per le date del ṛgveda, della grammatica del Pāṇini e del Buddha. Inoltre, il tempo trascorso tra la loro prima composizione e la loro redazione finale può essere stato considerevole. La parola brāhmaṇa significa asserzione sul brahman, ossia sull’importanza cosmica o sul senso del rito del sacrificio vedico, sia di ogni singola azione (karman) o formula (mantra) individuale, sia della combinazione delle azioni e delle formule che costituisce un particolare sacrificio. brāhmaṇa diventa allora un termine generico che si applica a tali raccolte di affermazioni o ai commentari. Questa classe di testi si occupa complessivamente del rituale «solenne» (śrauta), affrontandolo passo dopo passo, rito dopo rito. Congiuntamente con i mantra, che sono solitamente in versi, la prosa dei brāhmaṇa costituisce la śruti (da cui l’aggettivo śrauta), il corpus del veda «rivelato». I brāhmaṇa seguono la quadripartita divisione dei Veda e le corrispondenti parti del rituale: ṛgveda, recitazione; yajurveda, esecuzione; sāmaveda, canto e atharvaveda, celebrazione. Il gruppo centrale e più antico dei brāhmaṇa è quello dello yajurveda, che riguarda lo schema generale del processo rituale. Nelle versioni più antiche, o śākhā (“diramazioni”), dello yajurveda le parti del mantra e dei brāhmaṇa sono interpolate nelle saṃithā del “filone” principale (Kāṭhaka, Maitrāyaṇī e Taittirīfya Saṃithā, che formano il kṛṣṇa («nero») yajurveda. Nel più recente śukla («bianco») yajurveda, la saṃithā con i mantra attinenti al rito è separata dal brāhmaṇa (il śatapatha brāhmaṇa), come avviene anche nel ṛgveda e nel sāmaveda. Nell’atharvaveda, invece, alla saṃithā (che è distinta dal resto del veda) è unito un brāhmaṇa che è collegato e derivato solo lontanamente. Quindi i brāhmaṇa si svilupparono autonomamente, dando origine a un genere caratterizzato da una prosa espositiva standardizzata. Come genere ricordava i rituali śrauta e finì con l’istituzionalizzazione ultima dei cerimoniali associati. D’altra parte essi generarono le produttive upaniṣad, che furono in origine parte della letteratura dei brāhmaṇa e da questa si staccarono per occuparsi della speculazione metaritualistica ed esoterica.
Il pensiero ritualistico dei brāhmaṇa deve le sue origini a un cambiamento fondamentale della visione del mondo, che fece nascere una nuova concezione del sacrificio. Le informazioni dirette e coerenti sul rito del sacrificio prima dei testi dei brāhmaṇa scarseggiano, tuttavia presentano alcuni riferimenti, sparsi e arcaici ma significativi, che ci consentono di tracciare un quadro approssimativo delle precedenti pratiche rituali. In effetti, gli autori dei brāhmaṇa sembrano coscienti di stare restaurando il sacrificio all’interno di un sistema rituale nuovo e razionalizzato. Il vecchio schema sacrificale era legato intimamente al conflitto, alla contesa e alla battaglia, che corrispondevano al tema mitologico dell’inimicizia e della lotta tra gli dei della conquista (deva) e i loro avversari, gli asura. La festa del sacrificio era agonistica ed era l’istituzione centrale di una visione del mondo essenzialmente tragica ed eroica. La sua violenza distruttiva si ritrova, in forma ipertrofica, nella guerra totale del mahābhārata. La minaccia costante della violenza, della morte e della distruzione sanzionate sacralmente fornì lo stimolo per la riflessione intensa sul sacrificio e per la creazione del rituale śrauta, che è esposta nei brāhmaṇa.
Questa nuova esposizione delle pratiche rituali eliminò la festa agonistica, con i relativi rischi e l’incertezza del risultato che ne derivava, per sostituirla con un ordine assolutamente sicuro di riti meccanici e razionali. A questo scopo, il sacrificio venne estrapolato dal contesto competitivo. Ciò comportava l’esclusione dell’avversario dal luogo del sacrifico. Il sacrificio diventò un affare strettamente personale del singolo sacrificante (che agiva in perfetto accordo con i tecnici sacerdoti del rituale, da lui assunti). Di qui la mancanza di sacra publica dal rituale śrauta. Persino nei riti regali il re è un semplice sacrificante e in questo non si distingue dalle persone comuni. In altre parole, il sacrificio venne tolto dalla società e collocato a parte, in una sfera separata dell’individualità, trascendendo il mondo sociale. Fuori dalla società il sacrificante creò il proprio universo senza conflitti, perfettamente ordinato, soggetto solo alle regole assolute del rituale.
Nella mitologia questa competizione ritualizzata è espressa dall’identificazione del sacrificante con il dio creatore, prajāpati, il Signore delle creature, che personifica l’idea monistica del sacrificio, essendo egli stesso sia vittima che sacrificante. Attraverso il sacrificio, prajāpati, con lo smembramento del suo corpo, genera gli esseri, ricordando l’inno relativamente tardo delṛgveda (10,90) che celebra il sacrificio cosmogonico di puruṣa, l’Essere primordiale, officiato dagli dei. In questa accezione, prajāpati prende il posto di indra, il dio guerriero, nelle sue gesta marziali cosmogoniche. Il risultato non dipende più dalla prodezza dimostrata nel contesto sacrificale, che comprendeva arti marziali come la corsa dei carri e le abilità verbali, ma una conoscenza precisa del corpo delle regole rituali, complicato ma sistematico (e quindi apprendibile rapidamente).
In opposizione alla metafora poetica o visionaria, che si basava su equivalenze numeriche (saṃpad, saṃkhyāna), la tendenza principale del pensiero brahmanico, nell’elaborazione di un sistema rituale, fu l’identificazione in termini semplici di «questo è quello». Gli elementi del rituale (mantra, recitazioni, salmodie, canti, atti, orpelli rituali, il luogo del sacrificio e le sue varie componenti) vennero identificati con quelli dell’universo e del sé. In questo modo, il corso dell’universo, dell’uomo e della sua vita diventarono il denominatore del rituale. In ultima analisi è il sacrificante che, con la sua assimilazione a prajāpati (dio del sacrificio), integra dentro se stesso l’ordine rituale dell’universo. Siamo sulla soglia della dottrina delle upantṣad dell’identità dell’ātman (il sé) con il brahman (principium omnium) - una dottrina che si trova già annunciata in un passaggio del śathapata brāhmaṇa (10,6,3,1-2).
Si può considerare la visione del sacrificio dei brāhmaṇa come «un momento di magia pura e semplice», che fa sì che il sacrificante sia in grado di ottenere la realizzazione dei suoi desideri (bestiame, progenie, prestigio, potere, salute, lunga vita). Infatti, i testi sono ricchi di promesse di questo genere di ricompense per coloro che compiono sacrifici. La questione muta sottilmente quando entrano in scena, come accade di frequente, il paradiso e l’immortalità. Il problema della morte sembra essere un tema centrale nel sistema cosmico e rituale dei brāhmaṇa, che punta alla liberazione dal ciclo dell’alternarsi della vita-morte (la temuta «rimorte», punarmṛtyu) cercando un corpo immortale nell’aldilà, in accordo con l’ordine trascendentale del rituale. Anche se il sistema rituale dei brāhmaṇa resta aperto alle interpretazioni magiche, la loro rigorosa riflessione sul sacrificio non dovrebbe esserne oscurata, riflessione che risulta nella massimizzazione della potenzialità strutturale del rituale e nella costituzione di un sistema di regole assoluto, completo ed esaustivo. In questo senso possiamo parlare di «scienza del rituale» (cfr. la considerazione di Hermann Oldenberg dei brāhmaṇa come «Vorwissenschaftliche Wissenschaft»). Il termine brāhmaṇa si riferisce principalmente all’importanza cosmica del rituale, che trova espressione con l’identificazione, ma la tradizione śrauta esalta il sistema di regole come tale. I brāhmaṇa sono definiti presto come istruzioni sul rituale (codanā), mentre le discussioni esplicative (arthavāda), che comprendono le affermazioni sull’importanza cosmica del rito, che è illustrata dai racconti mitologici e di fatti passati, sono considerate secondarie, solo un «riferimento». Conta solamente la sistematica del rituale. In ultima analisi il potenziale magico viene rifiutato. Il sistema rituale esiste autonomamente, separato dalla realtà terrena e incontaminato dalle sue applicazioni o abusi.
A questo punto l’evoluzione del rituale va incontro a una biforcazione. Da una parte, la dottrina dei brāhmaṇa fece nascere i manuali di prescrizioni, i śrautasūtra e quindi, attraverso le metaregole in essi contenute, la scuola classica di giurisprudenza del mīmāṃsā. Dall’altra, le affermazioni sul brahman, cioè l’importanza cosmica del rito espressa nelle parti dell’arthavāda, prefigurano le meditazioni delle upaniṣad che proseguirono fino a formare la serie di commenti sanscriti in prosa e la speculazione classificata come vedanta («la conclusionedel Veda»).
āraṇyaka, letteralmente «riguardante i luoghi deserti» (āraṇya), è il nome di una classe di testi, approssimativamente definita, che fa parte o viene conglobata nei brāhmaṇa. Il loro tratto distintivo è che il materiale che contengono - sia mantra sia brāhmaṇa - è qualificato tradizionalmente come segreto, pericoloso e deve quindi essere studiato fuori dalla zona abitata (grāma), nei luoghi deserti, rispettando delle regole di comportamento restrittive (vrata). Perché questi testi abbiano questa nomea non è spiegato. Il contenuto degli āraṇyaka è vario, ma la maggioranza riguarda il mahāvrata, in origine la festa dell’anno nuovo con caratteristiche agonistiche e orgiastiche, e le parti del rituale che comportano il fuoco, soprattutto l’offerta di latte (pravargya), in cui un vaso di argilla viene portato a temperature elevate nel fuoco, ma ci sono anche i riti funebri. Questi ultimi potrebbero chiarire la qualifica di segreti e pericolosi data agli āraṇyaka, ma i riti funebri non sono discussi ovunque e non sono la parte preminente di questi testi. Forse il comune denominatore si ritrova nel fatto che i loro contenuti erano ritenuti specificatamente connessi alla vita fuori dalla comunità, che non significa, come è stato più volte erroneamente creduto, la vita degli asceti (vānaprastha), bensì quella dei guerrieri nomadi dell’antichità, che tenevano i loro fuochi e le loro mandrie lontano dai luoghi abitati. Un’indicazione di questo può essere letta nelle formule che forniscono i nomi delle divinità guerriere, i marut, e in quelle che celebrano i corpi e gli aspetti temibili (ghorā tanvaḥ) del fuoco. La sistematizzazione del rituale puntò all’esclusione del guerriero e delle sue imprese, le tradizioni più importanti vennero quindi a essere relegate ai margini dei ritualistici brāhmaṇa. D’altra parte, le zone desertiche erano, da tempi immemori, il luogo tipico della visione rivelatrice, che venne quindi associata al guerriero. I legami tra le zone desertiche, il guerriero e la visione potrebbero essere la causa della reputazione di pericolosità e segretezza che connota gli āraṇyaka La loro emarginazione potrebbe spiegare la natura mista e sconnessa dei loro contenuti (ai quali altro materiale potrebbe essere stato aggiunto in un secondo tempo) come rimanenze sacrali del mondo dei guerrieri, altrimenti screditato, che non avrebbero trovato facilmente collocazione all’interno del sistema rituale. Per la stessa ragione sembrerebbe che gli āraṇyaka possano offrire la giusta traccia per unire le upaniṣad ai brāhmaṇa. È interessante, sotto questo punto di vista, che nella loro forma le upaniṣad richiamino un aspetto importante del fenomeno guerriero-saggio, ovvero la contesa verbale (brahmodya) sulla analogia cosmica nascosta.