पुरुष

puruṣa

da Enciclopedia delle religioni vol. 9, Induismo, a cura di Mircea Eliade, Jaca Book
articolo di EDELTRAUD HARZER

PURUṢA è un termine sanscrito che significa «persona» o «uomo». Tuttavia, nel corso della storia intellet- tuale indiana, il termine ha acquisito i significati indipendenti di «il primo uomo», «Sé» e «coscienza». Lo sviluppo del concetto di puruṣa, pertanto, coincide con lo sviluppo dei concetti di ātman («sé»), brahman («sé universale») e kṣetrajña («conoscitore»). L’interrelazione tra questi concetti può essere rintracciata attraverso la letteratura delle upaniṣad e dei poemi epici, nelle opere dello scrittore buddista nell’opera medica di Caraka, e nei testi della scuola sāṃkhya.

Il termine puruṣa ricorre per la prima volta nel testo di inni vedici più antico che ci è pervenuto, il ṛgveda (composto verso la fine del periodo che va dal 1500 al 900 a.C.). L’inno 10,90 fa riferimento al primo uomo. dalle cui parti del corpo scaturirono i diversi gruppi della società (varna) basati sulla divisione del lavoro. Nelle upaniṣad più antiche (900-700 a.C.), il termine si riferisce ancora al primo uomo, la cui essenza, tuttavia, è interamente sé (ātman): «All’inizio questo mondo era il sé (ātman) solo nella forma di una Persona (puruṣa)» (bṛhadāraṇyaka upaniṣad l ,4, l). Quando il puruṣa venne ad esistere per la prima volta egli divenne cosciente di sé ed esclamò: «lo sono» (1,4,1).

Sia l’ātman che il brahman ereditarono la funzione della creazione dal puruṣa originario, il primo uomo. Tali esempi, per quanto riguarda l’ātman si trovano in bṛhadāraṇyaka upanisad 1,4,1-10, e nel caso del brahman in bṛhadāraṇyaka upanisad1,4,11-16. I vari miti di creazione ripresero le descrizioni di come l’«uno», de- siderando essere molti, si moltiplicò, formando una nuova creazione.

I concetti di ātman e di puruṣa come entità originarie sono sostituiti da brahman per la prima volta in un verso della bṛhadāraṇyaka upanisad : «In verità, all’inizio questo mondo era brahman, solamente uno» (1,4,11). Secondo le upaniṣad, il concetto pienamente articolato di brahman si riferisce all’entità cosmica, un sé onnipresente che contiene l’intero universo dentro sé. È questo sé universale (brahman) che fa da controparte al sé individuale (ātman). L’obiettivo delle dottrine upaniṣadiche era realizzare l’identità di questi due princìpi attraverso l’esperienza mistica.

Non è possibile interpretare uniformemente il concetto di puruṣa come sé o coscienza. Nel suo sviluppo esso subì trasformazioni funzionali tali che a volte esso assunse funzioni opposte. Questo sviluppo si può osservare, per esempio, nella descrizione del brahman come avente due aspetti: «Esistono, invero, due forme di brahman: quello formato (mūrta) e quello privo di forma, il mortale e l’immortale, quello che si muove e quello privo di movimento» (bṛhadāraṇyaka upanisad 2,3,1).

Cambiamento e creazione non erano le funzioni principali del concetto di puruṣa; alla fine puruṣa assunse altre funzioni, mentre quella della creazione venne ad essere associata con prakṛti («materialità»). Perciò, sebbene puruṣa fungesse da fondamento dell’intero universo, esso fu anche strumentale nello stabilire la materialità, un concetto opposto postulato dalla scuola sāṃkhya. Nel loro insieme, puruṣa e prakṛti costituivano le entità essenziali del sāṃkhya. Questa separazione di prakṛti dal puruṣa si riflette nel termine kṣetrajña.

kṣetrajña («conoscitore del campo», cioè conoscitore della materialità) è un termine usato per descrivere il puruṣa come coscienza (cfr. maitri upaniṣad 2,5). Una sezione del dodicesimo libro del mahābhāata chiama-ta mokṣadharma utilizza kṣetrajña come sinonimo di puruṣa, mentre il Buddhacarita di aśvaghoṣa usa kṣetrajña per coscienza nelle sue descrizioni delle dottrine del sāṃkhya (per esempio, Buddhacarita 12,20).

Le sāṃkhyakārikā (circa 350-550 d.C.) di īśvara - l’unica opera indipendente della scuola sāṃkhya pervenutaci, sono considerate l’esposizione classica del pensiero sāṃkhya. Secondo questo testo, puruṣa è una coscienza priva di contenuto distinta sotto ogni aspetto dalla materialità. La coscienza (puruṣa) è, infatti, concepita come l’esatto opposto della materialità o prakṛti (sāṃkhyakārikā 19). Per esempio, la coscienza è non causata e non è essa stessa una causa; essa è eterna, priva di spazio, priva di moto, priva di complessità, priva di substrato, priva di parti, indipendente, differenziata, e non produttiva. Lo scopo della coscienza è, per così dire, prestare coscienza alla materialità nel momento della conoscenza e giustificare in questo modo l’esistenza della materialità.

Grazie alla sua mera presenza, la coscienza è il «testimone passivo» (sākṣin) della materialità. La coscienza è anche il beneficiario delle attività della materialità, e alla fine, dato che è differente da tutte le esperienze comuni, il puruṣa rende quest’esperienza comune piena di significato grazie al suo essere diverso da essa, poiché è cosciente e rende l’esperienza un’esperienza conscia.

In origine, il puruṣa era definito uno, proprio come brahman e kṣetrajña sono uno. Tuttavia, nel sāṃkhya classico puruṣa, come l’ātman, venne a essere considerato plurale o molteplice. Questa pluralità di coscienze serviva a spiegare le differenze dell’esistenza, come diverse nascite e diverse morti. Secondo il sāṃkhya classico, se esistesse solo una coscienza ne conseguirebbe che, nel momento in cui un qualunque individuo ottenesse la liberazione, tutti gli individui otterrebbero simultaneamente la liberazione.

Sotto l’influsso della scuola filosofica dominante del vedanta, il maestro del sāṃkhya-yoga vijñānabhikṣu (XVI secolo) cercò di riconciliare la pluralità delle coscienze con l’unico sé universale del pensiero vedantico. Egli affermò che è possibile che la coscienza sia molteplice a certe condizioni. Ciò, tuttavia, non deve essere considerato una contraddizione dell’affermazione che esiste un’unica coscienza, poiché, secondo lui, la pluralità dei puruṣa è in ultima analisi solo una questione di comodità ai fini del discorso.

Nel sāṃkhya, come nella maggior parte delle scuole filosofiche indiane, la coscienza è strumentale per il conseguimento dello scopo supremo della filosofia, cioè la liberazione. La liberazione, secondo il sāṃkhya, deriva da quella conoscenza tramite la quale si distingue tra due entità come realtà essenzialmente diverse: la coscienza priva di contenuto (puruṣa) e la materialità (prakṛti). Il riconoscimento di questa distinzione è la verità che garantisce la liberazione.