Grammatica sanscrita

la sintassi


- Generalità

165- Gli autori di grammatiche sanscrite di solito riservano un posto ridotto alla sintassi, almeno come capitolo a sé stante (in Renou, per esempio, 45 pagine su 560); a volte manca del tutto (come in Burrow). Questo perché in sanscrito il significato di un enunciato viene inequivocabilmente dedotto dalla sua forma. I segni costitutivi di questa forma sono tutti di natura morfologica (con qualche rara eccezione): l’ordine delle parole, ad esempio, non ha alcun valore sintattico; al massimo possiamo dargli un valore stilistico o espressivo in determinate occasioni. Così, una sola parola: avivakṣathas è sufficiente per esprimere tutto un intero insieme di idee. Quando la analizziamo, vediamo che significa che il soggetto che parla “è stato testimone in passato (valore dell’imperfetto) del fatto che questa o quell’altra persona che si rivolge a lui (il verbo è in 2ª persona singolare) desidera (il verbo è un desiderativo) parlare (significato della radice VAC-) a proprio vantaggio (valore del medio)”. L’elemento lessicale in questo caso (l’unico a comparire nel dizionario) è ridotto alla radice; tutte le modalità sono espresse da forme (desinenze, aumenti, affissi, raddoppi). Allo stesso modo, vane da solo significa “nella foresta” (loc. sg.) oppure la parola (composta ma unica) rājapuruṣau basta a designare “i due servi del re” (nom. m. du.). Tutto sommato, la complessità della morfologia sanscrita è tale che i valori sintattici che non rientrano in essa sono pochi (si riducono ad alcuni tipi di subordinazione). Tuttavia, abbiamo scelto qui di raggruppare tutto ciò che c’è da dire sul valore dei casi, tempi, modalità, ecc., per consentire al lettore di avere facilmente un quadro generale.








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