īśopaniṣad - Śrī Satya Sai Baba



paspaśa, sm. introduzione, prefazione, argomento introduttivo esplicativo del piano dell’opera


Śrī Sathya Sai Baba, upaniṣad vahini, īśāvāsya upaniṣad, Mother Sai Publication, pp. 15-20

Il Signore, intento a rimanifestare il mondo, comunicò i veda per mezzo di hiranyagarbha , la Divinità Cosmica, che li trasmise ai suoi dieci “figli mentali” (manasaputra), compresi atri e marici. Per loro mezzo i veda furono diffusi all’umanità di generazione in generazione . Il tempo passò, le Ere si susseguirono e i continenti si spostarono. Alcuni veda si perdettero o furono trascurati perché di comprensione troppo difficile, tanto che solo quattro sono sopravvissuti fino ai nostri giorni. Essi furono insegnati nello dvāpara-yuga da vedavyāsa, il più grande tra gli esponenti dei veda , ai suoi discepoli .
Ora, mentre vyasa era impegnato a diffondere le sacre scritture, un discepolo di nome yājñavalkya incorse nella sua ira, e per punizione dovette rigurgitare quella parte dello yajurveda che aveva già appreso, riconsegnarla al Maestro (guru), e allontanarsi per prendere rifugio presso il Dio Sole (sūryadeva), Custode del tesoro dei veda. Allora, i Saggi che veneravano i veda volarono sul posto sotto forma di pernici (thiththin), e mangiarono quanto era stato vomitato da yājñavalkya. Questa speciale sezione dei veda è chiamata taittirīyam.
Nel frattempo sūryadeva, compiaciuto della devozione e della costanza dell’infelice yājñavalkya, prese la forma di un cavalo (vājin) e fece al saggio la grazia di rinnovargli la conoscenza dello yajurveda. Questa parte, insegnata dal vājin, venne chiamata vājasaneyī. Lo yajurveda divulgato da vedavyāsa è detto kriṣṇayajurveda, mentre quello tramandatoci da yājñavalkya è chiamato śuklayajurveda. In essi, i primi capitoli sono costituiti da formule sacre (mantra) riguardanti le azioni rituali, e quindi appartengono al karmakāṇḍa, mentre quelli condusivi trattano della Conoscenza, che rientra nello Jñānakāṇḍa.
Ora, la īśāvāsya upaniṣad si inserisce in quest’ultimo settore (kaṇḍa), proprio perché prende in esame la conoscenza (jñāna) . Il suo nome deriva dalla paro la īśāvāsyam con la quale inizia il primo mantra:

oṁ | īśāvāsyamidaṃ sarvaṃ yatkin͂ca jagatyāṃ jagat |
tena tyaktena bhuñjīthā mā gṛdhaḥ kasyasviddhanam||1||
“Tutte le cose di questo mondo, transitorio ed evanescente,
sono ravvolte dal Signore, che è la vera Realtà di ogni essere.
Perciò , devono venire usate con reverente rinuncia, senza brama né cupidigia,
perché appartengono al Signore, non alle persone.”

Questo significa che l’Universo è l’Immanenza del Signore, la Sua Forma, il Suo Corpo. È l’errato considerare distinti e differenti l’Universo e il Signore suo: è un’illusione, un prodotto dell’immaginazione dell ‘uomo . Come la vostra immagine riflessa sull’acqua non è diversa da voi, così l’Universo, che è la Sua immagine prodotta dalla vostra ignoranza, non è altro da Lui.

Finché l’uomo vive nell’illusione non potrà vedere la propria immanente Realtà, e scivolerà in errori di pensiero , di parola e d’azione. Un pezzo di legno di sandalo, immerso nell’acqua, manda cattivo odore; ma se lo trasformiamo in pasta di sandalo, ritornerà al profumo primitivo . Quando l’autorità dei veda e delle scritture è rispettata, e la discriminazione resa acuta con la pratica di azioni consone alla Legge Divina Universa le (dharmakarma), il cattivo odore dell’errore e della malvagità sparirà, ed emergerà il profumo puro ed innato dello Spirito (ātma). Svanirà la dualità tra chi agisce e chi fruisce dell’azione, e si raggiungerà lo stadio detto di sarvakarma sannyāsa , del ritiro da ogni attività. Questa upaniṣad descrive tale tipo di rinuncia (sannyāsa) come via verso la Liberazione (mokṣa).

Ma, senza la purezza della mente (citta), è ben difficile raggiungere la rinuncia (sannyāsa), che implica l’eliminazione di tre esigenze: di un compagno, della prole e della ricchezza.

La īśāvāsyopaniṣad indica, nel secondo mantra, i mezzi per arrivare a quella meta. Essi sono: eseguire il rito di adorazione del Fuoco (agnihotra) ed altre liturgie, come prescritto nei testi sacri (śastra), credere che per ottenere la liberazione occorra impegnarsi attivamente in tal senso, ed essere convinti che nessun peccato può contaminare chi è impegnato in questo lavoro. A poco a poco, l’azione compiuta senza desiderare i frutti elimina le impurità, come avviene nel crogiolo dell’orafo, e una mente pura è Conoscenza (jñāna) , è il coronamento del distacco.

Se nel compiere un’azione siete capaci di spogliarvi del desiderio, nessuna impurità vi potrà toccare. Sapete che i semi di chilliginji, gettati nell’acqua fangosa, hanno il potere di separare la melma e depositarla sul fondo, mentre anch’essi precipitano e spariscono alla vista. Allo stesso modo, chi compie azioni (karma) senza attaccamento avrà la mente totalmente purificata , e le conseguenze dei suo i atti perderanno efficacia e cadranno inerti sul fondo.

Dei diciotto mantra di questa upaniṣad , solo i primi due trattano direttamente il problema della liberazione e della sua soluzione. Gli altri sedici elaborano questa soluzione e fanno da commento.

Lo Spirito (ātma) non subisce alcuna modificazione, eppure è più veloce del pensiero. È questo il mistero e il miracolo: sembra sperimentare tutti gli stati, ma non cresce , non declina né cambia; per quanto sia ovunque, non è percettibile dai sensi. Ogni crescita, ogni attività ed ogni mutamento avvengono a causa del suo esistere come substrato e della sua immanenza onnipresente. Le cause e gli effetti agiscono e reagiscono in virtù della Realtà atmica che è il fondamento di ogni cosa. Il termine īśā significa proprio questo. L’Essenza di tutto il mondo oggettivo (ātma) è vicina e lontana, interna ed esterna, ferma e dinamica. Chi conosce questa Realtà merita il nome di Saggio (jñānin).

L’ignorante non potrà mai afferrare il concetto dell ‘immanenza dello Spirito (ātma). Solo chi ne è consapevole vedrà gli oggetti sentendo in essi la Sua Presenza; gli altri cercheranno il gioiello perduto senza accorgersi che lo stanno indossando. Per quanta istruzione possiate avere, se vi manca la consapevolezza dell‘ātma, la concepirete sempre come esistente in qualche luogo inavvicinabile. Invece il Saggio, che ne è consapevole, La vede in tutti gli esseri, e vede tutti gli esseri come Spirito (ātma): per lui tutti sono uguali, non vede differenza alcuna, e in tal modo si salva dal dualismo.

La īśāvāsya espone con chiarezza questa grande Verità. Il Saggio che ha sperimentato questa visione non sarà più scosso dai colpi della fortuna o dagli allettamenti dei sensi. Vedrà tutti gli esseri come se stesso, con la sua stessa identità innata; sarà libero da ogni legame, dal giusto (dharma) e dall’ingiusto (adharma), nonché dalle necessità e dagli impulsi del corpo. Sarà “Auto risplendente” (svayam-prakāśa). La sua vera forma non sarà più quella di un individuo (jīvarūpa), e neppure quella del corpo grossolano (sthūla-śarīra) o di quello sottile (sūkṣma-śarīra).
Dunque, il primo mantra della īśāvāsya espone la pratica della Conoscenza (jñānaniṣtha), che ha come caratteristica l’assenza di ogni sorta di desideri. Questo è, in verità, il significato primario (vedārtha) dei veda, ma chi è gravato dai desideri trova difficile stabilirsi in questo stato mentale (niṣtha). Ecco perché il mantra successivo indica un mezzo secondario, cioè il costante adempimento dei doveri inerenti al proprio stato (karmaniṣtha).

I restanti mantra elaborano e sostengono queste due discipline, basate sulla Conoscenza (jñāna) e sull’Azione (karma). Ora, l’adempimento dei propri doveri (karmaniṣtha) muove dal desiderio e dall’illusione, mentre la pratica della Conoscenza procede dal distacco e dalla convinzione che il mondo non è reale, ed è quindi inutile occuparsene. Una simile propensione al distacco (vairagya) costituisce la via d’accesso alla Conoscenza.

Dal terzo all’ottavo mantra viene descritta la reale Natura dello Spirito (ātma), condannando l’ignoranza (avidya)che ne impedisce la comprensione.

Dunque, nel primo mantra la īśāvāsya impartisce l’insegnamento della rinuncia e, nel secondo, quello dell’attività liberatrice per mezzo dell’azione scevra da sentimenti di attrazione (rāga) e di repulsione (dveṣa). Nel quarto e nel quinto espone la vera Natura dell’ātma (ātmatattva), e dei frutti che tale Conoscenza dona. Nel nono viene indicato il sentiero della liberazione progressiva (karmamukti), utile per chi è troppo debole per seguire quello della rinuncia totale, ma si dedica ad azioni che portano allo sviluppo morale e alla purificazione interiore. È la via che coordina tutti gli atti (karma) sul principio dell’interiorizzazione (upāsanā).

Chi agisce in modo contrario alla conoscenza (duale) che deriva dalle scienze sacre (vidya) manifesta la propria ignoranza (ajnana ), dice l’ upaniṣad, e quelli che si limitano a studiare i Testi e a praticare i rituali per acquisire poteri ed abilità , sono ancora peggiori. Ora, una tale conoscenza conduce al Paradiso (devaloka), e l’azione rituale (karma) al Regno dei Padri (pitṛloka), ma la Conoscenza (jñāna) che porta alla realizzazione del Sé (ātma-sakṣatkara) è qualcosa di ben diverso, e nessun tentativo di conciliarle può avere successo.

Naturalmente, non si deve agire in modo contrario alle Scritture, anche se, in ultima analisi, tutte quante le azioni possono venir classificate come ignoranza (avidya). Infatti le azioni possono aiutare, nel migliore dei casi, a purificare la mente, proprio come l’adorazione delle Divinità (upāsanā) può servire a concentrarla . In realtà, l’upāsanā deve elevarsi al livello di adorazione della Divinità Cosmica (hiranyagarbha), cioè deve maturare e trasformarsi in Liberazione prima che la vita abbia termine (jīvanmukti).

La conoscenza del Divino (devata-jñana) e l’adempimento dei doveri del proprio stato (karma-niṣtha) devono essere complementari e coordinati: sarà allora possibile sfuggire al ciclo delle nascite e delle morti, e divenire divini.

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