paspaśa
ṛgveda X.121
ka (chi?)
hiraṇyagarbha prājāpatya
10 versi: triṣṭubh
Stephanie W. Jamison, Joel P. Brereton, The ṛgveda, vol.1-3, Oxford University Press, 2014
Introduzione, p. 1592
Questo inno assume la forma di una cosmogonia, ma qui il principio creatore è innominato o non ha nome. Piuttosto che dichiarare la sua divinità, il ritornello dell’inno è una domanda: “Chi è il dio a cui dobbiamo rendere omaggio con la nostra oblazione?”. Pur non avendo un nome, la divinità ha una forma. Nella prima strofa il poeta la chiama hiraṇyagarbhá “l’embrione d’oro” (vs. 1a), il tuorlo di un uovo (cfr. Lommel 1939), anticipando così i miti successivi della creazione da un uovo-mondo (ad esempio, Vāmana Purāṇa Saromāhātmya XXII.17). Ma l’“embrione d’oro” è anche il sole, che qui nasce come centro del cosmo. Verso la fine dell’inno, nella strofa 7, il poeta conferisce al principio ancora innominato una seconda identità, non solo come dio ma come “vita degli dèi” (devā́nām…ásuḥ). L’ultimo verso attribuisce finalmente un nome al principio innominato, ma questo verso è un’aggiunta successiva (Oldenberg 1888: 248), che riflette uno sforzo redazionale per non lasciare irrisolto il mistero di questo principio. In quel versetto la divinità si rivela essere Prajāpati, il “Signore delle creature”, che nel Brāhmaṇas è sia il dio creatore sia l’archetipo del sacrificio. La tradizione successiva conferma l’identità di questo principio intendendo il sempre ripetuto ká “chi?” come un nome di Prajāpati. Di conseguenza, l’Anukramaṇī designa Ka come divinità di questo inno.
In un’interpretazione molto perspicace dell’inno, Proferes (2007: 140-41) mostra la relazione di questo inno con l’ideologia della regalità. Nel rituale dell’unzione regale il re rinasce per mezzo delle acque dell’unzione come un essere con il potere e la brillantezza del sole. Questo inno riproduce gli elementi di quel rito: il concepimento di un embrione (vv. 1, 7) e di un sovrano (vv. 1, 2, 3), le acque (vv. 7, 8, 9) che portano un embrione (v. 7) e la nascita del fuoco (v. 7). Il principio innominato comprende il mondo intero (vv. 4, 5, 10) e il suo potere si estende in ogni direzione (v. 4) e su ogni essere (vv. 2, 3, 8), come il re (idealmente) è il padrone del mondo, il cui potere si estende ovunque. Allo stesso modo, il principio innominato sostiene il mondo rendendolo saldo (v. 5) e stabile (vv. 5, 6) e gli dà vita (vv. 2, 7), poiché il re mantiene e conserva il mondo.
Strutturalmente, l’inno è organizzato come una serie quasi ininterrotta di clausole dipendenti. La prima serie di clausole relative, appese alle clausole principali del versetto 1, dura dai versetti 2 a 6. Il versetto 7 ristabilisce poi la serie di clausole dipendenti. Il versetto 7 ristabilisce poi lo schema, perché ha una clausola principale, da cui dipendono le clausole relative del versetto 8. La frase “egli solo esisteva” nei versetti 1b e 8c crea un anello, che definisce i confini del corpo principale dell’inno. Al di fuori di questo anello e del corpo principale dell’inno, il versetto 9 ripete in miniatura lo schema dei versetti precedenti. Ha una clausola principale in 9a, seguita da altre tre clausole relative e conclusa dal ritornello. Il verso è un appello alla divinità innominata affinché non faccia del male, il che lo rende anche tematicamente distinto dal corpo principale dell’inno. Come il versetto 10, anch’esso potrebbe essere un’aggiunta successiva, come ha affermato Thieme (1964: 69).
Saverio Sani, ṛgveda, le strofe della sapienza, Marsilio, 2000
Introduzione, p. 249
Si tratta della lode di un dio creatore di cui il poeta ignora - o fìnge di ignorare - il nome. Da qui il titolo «Chi?» (Ka) con cui l’inno è spesso citato. La rivelazione si ha tuttavia alla fine, nella strofa 10, che è forse un’aggiunta tarda al componimento; qui si scopre che il dio è Prajāpari, il signore delle creature, e si chiarisce anche l’allusione che viene fatta al suo nome nella strofa 1 quando si parla di un «signore di ciò che era venuto in essere». Questo dio si manifesta originariamente come un embrione d’oro, immagine che prelude a quella dell’uovo d’oro, concepito dalle Acque originali, tipica delle cosmogonie dell’india classica. Questa divinità corrisponde a un principio primo al di là del quale non si riesce ad andare col proprio pensiero.
Dal punto di vista stilistico l’inno ricorda quello celebrativo di Indra (11,12) con cui ha in comune, tra l’altro, la struttura che in entrambi i componimenti procede, strofa per strofa, attraverso una serie di frasi relative concluse da un ritornello sempre uguale.
Valentino Papesso, Inni del ṛgveda, Ubaldini, 1ª ediz. 1929
Introduzione di Valentino Papesso, p. 219
Nelle acque cosmiche il sommo dio diventò un germe d’oro — il germe del mondo, prototipo dell’uovo primordiale della cosmogonia posteriore. Come sia avvenuto ciò e in che forma il dio precedentemente esistesse, il poeta non dice; a lui interessa affermare che il dio, come nacque, fu l’unico signore di tutto ciò che esiste. L’inno somiglia nella struttura e in alcune espressioni a 11,12, a Indra, così da dar l’impressione che l’autore abbia voluto contrapporre a Indra il dio oggetto della sua ansiosa ricerca. L’ultimo verso, in cui alle domande contenute nei precedenti si risponde che il dio cercato è Prajāpati, ‘ il Signor delle creature ‘ — personificazione della forza creatrice della natura —, è certo una seriore aggiunta.