गायत्री

la natura della gāyatrī

da I.K. Taimni, gāyatrī, la madre dei veda, ed. Mediterranee 2009

La natura della gāyatrī

In questo capitolo cercheremo di capire, nei limiti del possibile, la natura essenziale della gāyatrī. La parola gāyatrī è usata nelle scritture hindu con tre diversi significati. In primo luogo, viene usata per il ben noto mantra, che viene recitato e sul quale si medita durante il saṃdhyā; in secondo luogo, per il canda, o metro, nel quale è composto il suddetto mantra, e infine, per quella devī (Dea) che incarna il potere di questo mantra. La natura e il significato del gāyatrī mantra e del suo metro verranno discussi in seguito, al momento opportuno. Prenderemo in considerazione, qui, la natura essenziale di gāyatrī devī, ossia quel Potere che viene invocato nell’upasanā e nel japa della gāyatrī.

Secondo le dottrine della filosofia hindu, nello stato noto come Realtà non manifesta, o nir**guṇa brahman, Coscienza e Potere esistono come unica Entità, indifferenziate e indistinguibili. Quando ha luogo la manifestazione si crea una distinzione primaria tra Coscienza e Potere, o śiva e śakti. śakti, a sua volta, si differenzia ulteriormente in innumerevoli poteri corrispondenti alle molteplici funzioni che devono essere svolte nell’universo manifesto, essendo ogni potere di śakti associato a una corrispondente funzione della coscienza. Questi aspetti sono le Divinità (śakti e devatā) dell’Induismo. A ogni funzione e potere vengono attribuiti una forma e un nome specifico, dal momento che la forma ha un significato altamente simbolico ed è pensata per dare al sādhaka, attraverso un’immagine concreta, un’idea completa di una specifica funzione Divina o Potere.

Qual è la funzione particolare che gāyatrī devī rappresenta? La funzione liberatrice di īśvara che libera le anime dalla prigionia nella quale il potere di māyā le relega. Queste due funzioni stanno alla base dei pravritti e nivritti mārga (i cammini di involuzione e di evoluzione) che sono come due flussi d’acqua che scorrono in direzioni opposte. Così come “eko haṃ… bahu syām” (sono uno e diventerò molti) inizia il processo di schiavitù e mette in azione il potere di māyā, allo stesso modo “bhargo devasya dhīmahi” (meditiamo sulla Luce divina del Signore) comincia il processo inverso di liberazione dalla schiavitù e mette in moto il potere di gāyatrī. La prima frase costituisce la base dell’involuzione, la seconda quella dell’evoluzione.

Questa prigionia generata dal potere di māyā non deve essere considerata come asservimento ma piuttosto come la necessità di attraversare il ciclo evolutivo per rendere possibile la perfezione della monade umana. Ma, quando l’evoluzione raggiunge un certo stadio, l’Auto-realizzazione diventa una parte necessaria per l’ulteriore progresso. A questo punto, sopraggiunge il bisogno del potere della gāyatrī che gradualmente dissipa le nuvole dell’ignoranza e permette alla monade di vedere il Sole spirituale che splende eternamente dietro a queste nuvole, e di comprendere la propria unità con quel Sole. māyā e gāyatrī sono, dunque, le ancelle del Divino e sono entrambe egualmente necessarie al funzionamento del processo del mondo. Sono i due poteri complementari rappresentati dall’antilope e dall’accetta nel famoso dhyāna mantra (il mantra della meditazione) di śiva.

L’involuzione nella materia è dovuta all’identificazione con la materia stessa. L’evoluzione al di fuori della materia è causata dall’identificazione con la coscienza. Più ci identifichiamo con la materia, più affondiamo in essa e diventiamo schiavi dei nostri veicoli e del nostro ambiente. Più ci identifichiamo con la coscienza, più ci liberiamo dal jaḍa jagat (universo materiale) e dalle sue illusioni e diventiamo consci di quella Realtà nota come Dio. Questa realizzazione della nostra vera natura può avvenire su tre livelli: quello intellettuale, quello intuitivo e quello Reale, e le tre forme della gāyatrī, usate nel trikāla-saṃdhyā (la preghiera praticata nei tre momenti della giornata), sono connesse con questi tre stadi.

Questo ci porta alla simbologia della gāyatrī devī. Come sottolineato prima, le forme assegnate alle varie Divinità, Dei e Dee, nella religione hindu hanno tutte un valore simbolico, in cui ogni parte o caratteristica della forma rappresenta qualche potere, attributo o funzione. Questa rappresentazione non è fatta in maniera casuale ma segue certi principi generali, che non abbiamo bisogno di prendere in considerazione ora. La cosa importante da tenere a mente nell’interpretazione dei simboli è che il simbolo scelto è tale da suggerire facilmente e naturalmente alla mente la qualità o il potere che si cerca di rappresentare attraverso di esso. Gli oggetti scelti come simboli sono generalmente quelli familiari all’uomo comune. Così la luna crescente sulla testa di śiva simboleggia la periodicità e il tempo, la conchiglia nella mano di viṣṇu simboleggia il nāda, il potere nascosto nel suono; il māla nella mano di brahmā simboleggia il japa, e così via. In questo modo, la rappresentazione simbolica incarna in una forma composita e concreta tutti i concetti filosofici e tradizionali associati con le Divinità e aiuta il sādhaka nel richiamare questi concetti durante la meditazione. La simbologia della gāyatrī devī è la stessa della Trinità (trideva) - brahmā, viṣṇu e maheśa - con l’unica differenza che la forma è femminile invece che maschile. Questo significa, senza dubbio, che le tre forme femminili rappresentano quel potere che permette al sādhaka di unire la sua coscienza con quella delle Tre Divinità. Le tre forme della gāyatrī non hanno niente a che fare con i poteri usati dalle tre Divinità nell’esercizio delle loro normali funzioni nell’universo manifesto. Questi poteri, indicati come poteri di creazione, preservazione e distruzione, sono rappresentati dalle tre Dee - sarasvatī, LakshmT e Kali - che sono rispettivamente le consorti di brahmā, viṣṇu e rudra. Perciò se un devoto desidera l’erudizione (vidyā) invoca sarasvatī, se desidera la ricchezza invoca lakṣmī, e se ha bisogno di aiuto in gravi difficoltà, si appella a kālī. Ma se egli non desidera nulla di ciò che le tre Divinità possono dargli attraverso i loro rispettivi śakti, ma vuole īśvara in persona, dovrebbe invocare gāyatrī, perché essa rappresenta il potere che lo rende in grado di unire la sua coscienza con quella di īśvara e, in questo modo, di conoscerLo. Questa è la differenza tra il vero devoto che ama e venera Dio in quanto tale, per il privilegio di servirLo, e il devoto che si avvicina a Dio per ogni genere di cose egli possa ottenere da Lui. Ciascuno ottiene ciò che desidera e richiede ma, sicuramente, chiedere a Dio soltanto cose che Egli può donare, invece del privilegio di poterLo conoscere e diventare un tutt’uno con Lui, denota una totale mancanza di buon senso.

Questa conoscenza può avvenire su tre livelli: intellettuale, intuitivo e Reale (la parola “Reale” viene usata con lo stesso significato di Realizzazione o pratyakṣa-jñāna), che corrispondono rispettivamente ai tre aspetti di brahmā, viṣṇu e maheśa. Innanzitutto, è possibile conoscere īśvara attraverso l’intelletto. Una persona che abbia studiato a fondo scienze, filosofia e religione può acquisire delle conoscenze concernenti la natura di īśvara e le Sue funzioni nell’universo. È altresì vero che questa conoscenza, se puramente intellettuale, non è né affidabile né veramente soddisfacente, com’è stato affermato nell’introduzione, ed è quindi di livello inferiore. Ma bisogna riconoscere che questa è comunque conoscenza e può servire come base o da trampolino per la vera conoscenza. Inoltre, è possibile conoscere īśvara attraverso l’intuizione o la percezione spirituale. Questo tipo di conoscenza è basato sulla percezione indiretta della Realtà, che è la base dell’universo manifesto e trova espressione in tutte le forme viventi. Finché l’uomo rimane confinato nel regno delle forme, non può vedere īśvara direttamente, ma può riconoscere la Realtà immanente attraverso di esse. Egli può provare dentro di sé, nella maniera più vivida e intensa, l’amore, la beatitudine, la bellezza e il potere di questa Realtà. Poiché questa conoscenza è basata sull’esperienza personale e viene dall’interno, è completamente differente e infinitamente superiore rispetto alla conoscenza intellettuale di cui prima. Infine, è possibile che il sādhaka conosca īśvara direttamente fondendo la propria coscienza con la Sua coscienza. È solo quando l’“io” del sādhaka scompare completamente e resta solo la Realtà nascosta dietro quell’“Io”, che īśvara potrà essere conosciuto per ciò che Egli è realmente. Questa Autorealizzazione, che è conoscenza della natura trascendentale di īśvara o maheśa, è il più alto tipo di conoscenza possibile per l’uomo.

Il fatto che la gāyatrī upāsanā porti al graduale svelamento della coscienza umana su tre livelli, passo dopo passo, ci permetterà di capire il riferimento alla gāyatrī come madre dei veda. I veda, nel loro significato più generale e profondo rappresentano la totalità della conoscenza che esiste sui piani superiori riguardo al Manifesto e al non Manifesto. È questa la conoscenza con la quale i ṛṣi sono venuti in diretto contatto attraverso i loro poteri yogici interiori e che hanno condensato in forma di śruti. Chiunque abbia anche una familiarità superficiale con i veda, può notare che la conoscenza in essi contenuta è frammentaria e non potrebbe mai rappresentare la totalità della conoscenza come deve esistere, nascosta nella Mente Universale. Se tralasciamo il fatto che la maggior parte dei veda, così come esistevano in origine, è andata persa e che quello che ci è rimasto è solo una minima parte, perfino i veda nella loro interezza e completezza, come certamente sono esistiti un tempo, non potrebbero mai rappresentare il vero veda. Questo, per sua stessa natura, non può essere contenuto in nessuna serie o in nessun tipo di libro. Sarebbe assurdo supporre ciò, così come è assurdo immaginare che un giorno arriverà il momento in cui la conoscenza scientifica diventerà completa e raggiungeremo l’ultima frontiera di questa conoscenza. La difficoltà di fissare mentalmente un limite alla conoscenza riguardante i piani superfisici è ancora maggiore, perché molta di questa conoscenza difficilmente può essere espressa attraverso il mezzo imperfetto della lingua. La conoscenza è, per sua stessa natura, infinita e non può essere racchiusa negli stretti limiti di nessuna serie di libri, per quanto elevate e sacre siano le loro origini. Quindi possiamo al massimo prendere i quattro veda così come ci sono stati tramandati, come un insieme frammentario di un infinito tutto, con il quale possiamo venire parzialmente in contatto solo nelle profondità della nostra coscienza, e che non potremo mai esprimere pienamente attraverso lo strumento della lingua.
Questa idea è rappresentata molto bene nel verso IV-31 degli yoga sūtra.
tadā, sarvāvaraṇa-malāpetasya jñānasyānantyāj jñeyam alpam

“Allora, come conseguenza della rimozione dell’ottenebramento e di tutte le impurità, ciò che può essere conosciuto (attraverso la mente), è poca cosa in confronto all’Infinità della conoscenza (ottenuta nell’Illuminazione)”.
Se accettiamo questa concezione dei veda non dovrebbero esserci difficoltà nel capire cosa si intende quando ci si riferisce alla gāyatrī come madre dei veda. La gāyatrī ci aiuta a svelare progressivamente la coscienza umana. Lo svelamento della coscienza umana, se portato a un certo livello, ci aiuta a venire in contatto, attraverso i livelli più profondi della nostra stessa coscienza, con la Mente Universale nella quale è contenuta tutta la conoscenza dei veda. Si potrà perciò capire che l’unica maniera vera ed efficace di conoscere i veda è attraverso la gāyatrī o qualunque altro mezzo che conduca a questo progressivo dischiudersi della nostra coscienza. Il riferimento alla gāyatrī come madre dei veda è, quindi, non soltanto giustificato, ma anche il modo più bello e adatto per poter caratterizzare una delle sue funzioni. È già stato affermato che la conoscenza che si dischiude in noi attraverso la gāyatrī upāsanā avviene a tre livelli - intellettuale, intuitivo e Reale. La conoscenza che appare quando il sādhaka viene a contatto con la Mente Universale fa parte del primo livello, quello inferiore. È la conoscenza appartenente al puro intelletto, che è simboleggiata dal libro in una delle mani di brahmā. Vi sono due ulteriori livelli di conoscenza - intuitivo e Reale - che il sādhaka raggiunge quando la sua coscienza penetra nei livelli ancora più profondi del proprio essere. Questi livelli appartengono alla coscienza di viṣṇu e maheśa.

Non c’è bisogno di portare avanti questo concetto ulteriormente. Il punto principale da capire è che l’upāsanā e il japa della gāyatrī sono i mezzi per dischiudere la coscienza umana senza alcun limite. Lo svelamento comincia nel particolare stadio in cui il sādhaka si trova e può proseguire senza limiti finché egli non raggiunge l’ultimo stadio di Auto-realizzazione possibile per un essere umano, la jīvanmukti, il nirvāṇa o qualunque nome si voglia dare a questo stato di Illuminazione. Nei primi stadi, difficilmente si può dare il nome di Illuminazione a questo svelamento. Prima che qualsiasi luce spirituale possa irrompere dagli anfratti più nascosti del nostro essere attraverso i regni della nostra mente, molte cose devono essere portate a termine. Le impurità devono essere rimosse, le deformazioni devono essere raddrizzate, i veicoli devono essere armonizzati. Solo in una mente preparata in questo modo, liberata da questi difetti ordinari, si può manifestare la luce della conoscenza superiore. Ma quando questa luce di conoscenza appare, il sādhaka ha acceso la propria lampada e, nella luce emanata da questa lampada, egli può percorrere fermamente il Sentiero che porta infine all’Auto-realizzazione. Ma il lavoro preparatorio deve essere fatto prima che questa luce spirituale, chiamata viveka-khyāti**, possa apparire nel nostro cuore, come indicato nel verso 11-28 degli yoga sūtra posto nell’Introduzione.

Il discepolo capirà, da ciò che è stato detto nei paragrafi precedenti, che le affermazioni che si trovano spesso nella letteratura religiosa, secondo le quali il fine della gāyatrī upāsanā sarebbe semplicemente quello di distruggere i peccati commessi durante il giorno, è profondamente fuorviante. In primo luogo, è una enorme sottovalutazione del potere e dell’efficacia della gāyatrī upāsanā e, secondariamente, dà un’idea estremamente sbagliata dei suoi scopi. La Vita diventerebbe straordinariamente semplice, ma allo stesso tempo una farsa della Saggezza e della Giustizia Divina, se potessimo cancellare gli effetti di tutti i peccati commessi durante il giorno, semplicemente ripetendo un mantra un certo numero di volte. Chiunque ripeta il gāyatrī mantra quotidianamente potrebbe dunque sperare di ricominciare ogni giorno, innocente e senza colpe, come un bambino appena nato, con soltanto il puṇya (merito) del passato nel suo bilancio karmico. Ma ogni sādhaka sa e sente nel profondo del suo cuore che ciò non potrebbe in alcun modo essere vero. In che senso allora deve essere interpretata la precedente affermazione? Semplicemente nel senso che le tendenze a fare il male possono essere neutralizzate, in una certa misura, dalla gāyatrī upāsanā. Ogni azione, pensiero o emozione, siano essi buoni o cattivi, ha due tipi di risultati. Come prima cosa, sviluppa nell’individuo una certa tendenza a fare il bene o il male di quel particolare tipo e, secondariamente, produce determinati effetti sugli altri, che hanno come conseguenza la generazione di un karma buono o cattivo. L’ultimo tipo di effetto non può essere cancellato con nessun mezzo, e deve essere scontato nel normale corso degli eventi attraverso esperienze positive o negative nel futuro. Il primo tipo di effetto, invece, che ha a che fare con lo sviluppo di tendenze interne all’individuo stesso, può essere rafforzato o annullato tramite la gāyatrī upāsanā, o qualunque tipo di pratica che porti alla generazione di forze spirituali dentro di lui.