Grammatica sanscrita

Introduzione

I. - INTRODUZIONE

Lo scopo di questo piccolo libro, di natura enciclopedica, è quello di dare una rapida ma completa descrizione del sanscrito classico. Troveremo quindi pochissimi riferimenti alla grammatica comparativa delle lingue indoeuropee, sebbene la scoperta del sanscrito da parte dei filologi occidentali alla fine del XVIII secolo sia stata l’origine della formazione di questa scienza. Allo stesso modo, le allusioni all’evoluzione storica del sanscrito sono furtive e occasionali: abbiamo deliberatamente scelto di presentare la lingua in modo sincronico, riflettendo uno stato “fossilizzato”, quello stesso in cui la cultura tradizionale dell’India si è espressa per quasi quindici secoli. Va aggiunto che questa scelta era tanto più giustificata in quanto lo stato della lingua così descritto è ritenuto “perfetto” (questo è il significato della parola samskṛtam) e ne varietur dagli stessi indiani, a partire da Pāṇini, il geniale grammatico che, nel VI secolo a.C., fu il primo a presentarne un’esposizione sistematica. Non è necessario giustificare ulteriormente una scelta in sintonia con una delle principali tendenze della linguistica moderna, sebbene le grammatiche puramente descrittive del sanscrito siano molto rare (vedi Bibliografie alla fine del volume); il modello in questo campo rimane la Grammaire Védique di Louis Renou (1952), dove il discorso non si concentra nemmeno sul linguaggio dei Veda in generale, ma solo su quello della poesia vedica (chandas), descritta in sé e per sé e “non come un brano di dimostrazione linguistica o come parte di un insieme più ampio”. Lo stesso studioso aveva precedentemente fornito (1930) una grammatica sanscrita in cui la lingua classica veniva analizzata in modo simile (a volte con qualche indicazione sulla storia delle forme). Tutte le altre opere dedicate al sanscrito (anche la piccola grammatica di Macdonnel) fanno appello al confronto, a titolo di spiegazione (si potrebbe dire di giustificazione) della morfologia sanscrita.

Va da sé, però, che la suddetta grammatica non sarebbe stata scritta allo stesso modo se i comparatisti non avessero fatto il lavoro che si conosce; grazie a Pāṇini (egli stesso erede di liturgisti attenti alla corretta pronuncia della lingua sacra), la fonetica sarebbe stata pressoché simile a quella che danno le opere moderne, ma la teoria della coniugazione, per esempio, deve tutto - o quasi - agli studiosi europei del XIX secolo, da F. Bopp (Über das Conjurationssystem der Sanskritsprache, 1816) a K. Brugmann (Grundriss, 1916) e soprattutto a J. Wackernagel la cui monumentale Altindische Grammatik (1896-1957, incompiuta) costituisce un esempio quasi perfetto di ciò che il metodo genetico può dare in linguistica comparata.
Le grammatiche sanscrite presentano quindi questo carattere originale, rispetto alle grammatiche latine o greche, di essere risolutamente moderne nel loro principio, pur rimanendo essenzialmente fedeli all’insegnamento di un indiano che scrisse circa 2.500 anni fa.
Questa fedeltà si può vedere, ad esempio, nella terminologia: se chiamiamo “cerebrali” certe dentali di un particolare tipo, è perché lo stesso Pāṇini li ha chiamati mūrdhanya (“cerebrale”) e sappiamo che parole come saṁdhi, o bahuvrīhi, sono entrate a far parte del vocabolario linguistico comune. Più in profondità, la teoria del medio (azione compiuta a beneficio del soggetto: ātmanepada “per sé stessi”), quella delle vocali e dei dittonghi (e = a + i, o = a + u, ecc.), quella della formazione dei nomi, sono prese in prestito direttamente da Pāṇini, con gli aggiustamenti resi necessari dal progresso della conoscenza. Il lettore non sarà quindi sorpreso di trovare in questo libro termini grammaticali (guṇa, vṛddhi, tatpuruṣa, visarga, ecc.) la cui origine è da ricercare in Pāṇini, o nei suoi commentatori.

Tutte queste parole vengono definite in questo libro così come appaiono e sono elencate nell’indice alla fine del volume in modo che si possano trovare nel corpo della Grammatica. Questa è suddivisa in paragrafi numerati per consentire riferimenti sistematici a concetti già spiegati. Alla fine del volume è inclusa anche una bibliografia ragionata, insieme a consigli pratici per coloro che vorrebbero iniziare lo studio del sanscrito.

Evoluzione del sanscrito
Senza dare in senso stretto una storia letteraria del sanscrito, è utile avere una certa conoscenza sull’evoluzione della lingua (a questo proposito, si può consultare l’Histoire de la langue sanskrite di L. Renou, Ed. I.A.C., 1955. ).
Derivato dalla più arcaica lingua indoeuropea, il sanscrito, insieme all’iraniano antico, formò per la prima volta una lingua comune, chiamata indoiranica. Le date e la posizione geografica sono impossibili da individuare con precisione, ma si pensa che l’indo-iranico possa essere stato parlato intorno al 2500 a.C. a sud del Mare di Aral. La scissione sarebbe avvenuta all’inizio del secondo millennio, con gli iraniani che si sono stabiliti in Battria e sull’altopiano nord-orientale dell’Iran, e gli indiani in Kashmir e Punjab. Il sanscrito era allora già consolidato e godeva di un certo prestigio nelle comunità arie, poiché documenti anatolici risalenti al secondo millennio testimoniano l’uso di un vocabolario espressamente sanscrito (nomi di divinità a Mitanni: Indra, i gemelli Nāsatya, ecc.; termini relativi alle corse dei carri, ecc.).

Della letteratura sanscrita di questo periodo remoto, ci rimangono i testi religiosi raggruppati sotto il nome unico di veda (propriamente “la Conoscenza [per eccellenza]”). È un’enorme massa di documenti liturgici, inni, formule, prescrizioni rituali accompagnate da commenti teologici e speculazioni varie. Questo canone, il cui nucleo risale al periodo indo-iraniano, si è costruito a poco a poco, diventando sempre più ricco nel corso di oltre un millennio, tra il 1800 e il 500 a.C.. Il sanscrito arcaico è quindi chiamato vedico, come diciamo ebraico biblico o greco omerico. È una lingua colta (poiché gli unici documenti a nostra disposizione sono molto elaborati), di grande ricchezza morfologica dove abbondano le forme verbali; i composti raramente superano i due membri, la subordinazione è ridotta all’uso di correlativi (vedi 182), il discorso indiretto è sconosciuto. Ma il vocabolario è sontuoso e i poeti lo usano per variare all’infinito l’espressione del loro entusiasmo religioso.
Tutto suggerisce, tuttavia, che dall’inizio del primo millennio il sanscrito non fosse altro che una lingua di letterati. Il resto della comunità, infatti, parlava vari dialetti derivati dal sanscrito e denominati, per antitesi, prākṛt (anche in vedico, le forme prākṛt sono introdotte surrettiziamente, così jyotiṣ- “luce”, dalla radice DYUT-, splendere). È in prākṛt che il Buddha predicò nel VII secolo a.C. ed è dai vari prākṛt (talvolta raggruppati sotto il nome di “medio-Indiano”) che nasceranno le lingue indo-arie dell’India moderna: hindi, bengalese, mahratte, punjabi, assamese, ecc.
Forse fu per preservare il tesoro culturale rappresentato dal sanscrito, la lingua dell’ortodossia brahmanica, contro il crescente prestigio dei prākṛt (usati dai predicatori buddisti) che Pāṇini scrisse la sua Grammatica.
Era egli stesso il culmine di una lunga tradizione di fonetisti, attenti a preservare la corretta pronuncia delle formule liturgiche, e di etimologi interessati alla ricerca del significato segreto delle parole vediche. Ma è a lui che appartiene il privilegio di aver fondato la norma, ormai definitiva, del sanscrito classico. Da quel momento in poi (IV secolo a.C.) il prestigio della lingua “divina” divenne così grande in India che gli stessi buddisti si rassegnarono a scrivere le loro opere dottrinali in sanscrito, e persino a tradurre i testi fondamentali della loro religione nella lingua dei bramini!
Un’altra fonte del sanscrito classico è il linguaggio dell’epico (Mahābhārata e Rāmāyana) e dei Purāna (poesie didattiche e annali storici), a sua volta derivato da un sanscrito “vedico” non liturgico di cui non ci rimane nulla. Questo sanscrito epico si discosta spesso dalla norma pāṇineana, non per ignoranza di quest’ultima, ma perché la sua origine è diversa: Pāṇini stava lavorando ai veda e aveva in mente un linguaggio tecnico, più che letterario. In breve, il sanscrito classico è quindi un idioma composito in cui si mescola l’influenza arcaizzante dell’Epopea, quella - difficile da valutare con esattezza - delle lingue indigene non arie, quella ancora della realtà sociale dei vari tempi in cui si scriveva in sanscrito (fino al X secolo d.C., la letteratura dell’India settentrionale e centrale era esclusivamente sanscrita). Ma, consapevolmente o meno, gli autori si sforzano di rimanere in linea con le regole di Pāṇini il cui prestigio è in costante crescita. Si arriva al punto di prendere i vecchi testi e riscriverli in conformità con la norma: è il caso del Bhāgavata-Purāṇa e, in misura minore, dello stesso Rāmāyana. Per quanto riguarda le letterature tecniche (filosofica in particolare), sono scrupolosamente pāṇineane.

Nel complesso, il sanscrito classico è lo strumento privilegiato di una civiltà brillante, quella dell’età dell’oro dell’India, il cui culmine è stato segnato dal regno della dinastia Gupta (apogeo del V secolo); la poesia lirica, il teatro, la filosofia, il diritto, danno materiale a capolavori e permettono a uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, Kālidāsa (VI secolo) di esprimere tutto il suo potenziale. Dopo il X secolo il sanscrito, in concorrenza con le lingue moderne, divenne appannaggio di ambienti sempre più ristretti, e di conseguenza assunse un carattere esoterico; accessibile solo a un ristretto numero di pandit (= letterati) in competizione per il favore dei mecenati, divenne una lingua artificiale in cui trionfa il rebus (parole con due e tre significati, composte da diverse decine di membri, ecc.). Ci sono però delle eccezioni: Rāmānuja in filosofia (XI secolo), Somadeva (XI) e Jayadeva (XII) in poesia, Kavirāja (XIV) in estetica, ecc. In effetti la letteratura sanscrita, dai veda ai tempi moderni, è una miniera inesauribile di ricchezze ancora poco conosciute dal pubblico. In Francia, tuttavia, dove fu creato il primo insegnamento di sanscrito mai offerto in Occidente (cattedra di Chezy al Collège de France, 1814), gli studi indiani hanno sempre occupato un posto molto modesto all’Università. Se questo piccolo libro potesse suscitare nuove vocazioni, l’autore avrebbe la sensazione di non aver mancato l’obiettivo che stava perseguendo per scriverlo.






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