sanscrito vedico

invariabili



CAPITOLO V

GLI INVARIABILI

375. Preverbi. - Una serie di particelle funzionano talvolta (almeno in parte) come parole indipendenti, con valore di avverbio o preposizione; talvolta come prefissi (nel ruolo di membri anteriori di composti nominali), talvolta infine come prefissi verbali (preverbi). Abbiamo già visto gli usi compositivi 174 sq. 181 183: essi coincidono in larga misura con gli usi di preverbi o con gli usi indipendenti (avverbi, preposizioni).

Come preverbi propriamente detti, queste parole appaiono o attaccate al verbo, o - questa è la situazione antica e fondamentale - separate: in quest’ultimo caso, sono di solito collocate all’inizio del pāda o della frase e hanno naturalmente un tono (talvolta anche postposto al verbo). Ma sono, semanticamente così legate al processo che già nell’antica RS., in circa metà dei casi, si uniscono al verbo, arrivando fino a perdere il proprio tono quando (anche all’inizio del pāda) sono poste davanti a un verbo tonico (88 b.).

  1. Vedi anche i fatti di saṃdhi 147 sq. 150 che sottolineano il contatto stretto.
  2. Si verifica anche che il preverbo mantenga il tono (pári véda VI 1 9): il caso si verifica in particolare davanti a un participio in diversi passaggi. Da notare che il pdp. restituisce talvolta il tono del preverbo quando la vocale finale tonificabile è scritta -y o -o.

La fusione del preverbo e del verbo è normale in frase subordinata, quasi costante in frase negativa, costante nelle forme nominali del verbo (tranne talvolta per il participio, e, eccezionalmente, ā́dṛśé AS. VII 22 1, nibādhitāsaḥ KB. XXVIII 6). La separazione (impropriamente detta “tmèse”) è dominante in frase principale o indipendente, lì in particolare dove un valore enfatico si attacca al preverbo. Diminuisce nei mantra recenti e già nel Libro X.

Numerosi preverbi appaiono senza verbo nella RS., in particolare ā́prá sám. Sarebbe abusivo parlare di ellissi ogni volta. Il preverbo da solo è sufficiente a indicare un movimento (frase esortativa) nelle proposizioni elementari; da ciò l’impiego si è esteso a proposizioni più complesse, come che significa “aprire” II 24 2.

Anche quando il verbo è espresso, il preverbo porta spesso l’essenziale del valore verbale, nír gā́ ūpe X. 68 3 “ha fatto uscire (nís) le mucche (come si fa uscire il grano dalla spiga)” yātam párvatam X 39 13 “spaccate la montagna camminando” gā́ udānṛcúḥ AS. “hanno fatto uscire le mucche col loro canto”. L’uso di questo o quel verbo particolare dà l’impressione di essere poco importante, mentre visibilmente il preverbo attira a sé il senso principale del processo.

376. I preverbi esprimono essenzialmente il movimento: prima un movimento reale, poi figurato. Un impiego particolare, che ha una certa estensione, è quello che si può chiamare “transitivante”. Infine, alcuni usi attestano un’influenza proveniente dalla composizione nominale: impieghi avverbiali o preposizionali. La distinzione è comunque a volte difficile tra preverbo e preposizione (o avverbio): il contesto ha imposto la funzione, per parole che in origine erano indipendenti, in grado di aggregarsi a un verbo o a reggere o qualificare un nome.

ácha (áchā 109) indica la direzione verso, con verbi di movimento o che significano “dire”. L’impiego preposizionale qui rimane dominante (regime Ac.), l’impiego preverbale sembra essere una specializzazione. Un esempio di regime al L. SS. I 543, in var. del regime Ac.

áti, con i verbi di movimento, indica che il movimento avviene fino in fondo o oltre (“andando oltre”): con DĀ- “superare con i propri doni”, MAN- “disprezzare”. Alcune formule preposizionali (regime Ac.; I. raro, I 36 16), come pūrvī́r áti kṣápaḥ X 77 2 “attraverso molte notti”.

ádhi “sopra” (in senso proprio e figurato), ad esempio (con valore frequentemente transitivante) con RUH- “salire su”, I- e GAM- “trovare, comprendere, apprendere”, VAC- “parlare a nome di, garantire”, DHĀ- “affidare”. ádhi è anche una preposizione, inizialmente con il L. (kás te devó ádhi mārḍīká āsīt IV 18 12 “quale dio fu compassionevole verso di te?”), poi con l’Ab. di punto di partenza (niraitu jīvó ákṣato jīvó jī́vantyā ádhi V 78 9 “che esca vivo senza danno, vivo da lei viva”); il regime Ac. è molto raro (VII 36 1), l’I. limitato alla formula ádhi ṣṇúnā (ṣṇúbhiḥ) “sulla sommità”. Come avverbio infine, “in aggiunta a” (con n. di numero; regime G. VIII 413, 714).

377. ánu significa precisamente “dopo” (ciò che segue, ciò che accompagna, si avvicina, si conforma), con STĀ- “aggregarsi, seguire, aiutare”, JAN- “nascere successivamente”, JÑĀ- “concedere, riconoscere, donare”, MĀ-1 “cedere misurando”. Come preposizione (regime Ac.), “lungo, attraverso; per mezzo di” e specialmente “secondo” (svárn ánu vratám 1128 1 “secondo la sua legge”) o distributivamente (ánu dyū́n “giorno dopo giorno”; anche dyúbhiḥ). Regime G. I 30 9 VIII 69 18

Antár è poco frequente come preverbo: con GĀ-1 “andare tra, separare”. L’uso è adverbiale o più spesso preposizionale, servendo a precisare il L. (pl.), es. bhúvaneṣv antáḥ “tra gli esseri”. L’Ac. segna la demarcazione tra due gruppi, antár devā́n mártyāṃś ca VIII 2 4 “tra i dei e i mortali”. Ab. (raro) “da (dentro)”, G. IX 12 7.

ápa è unicamente preverbo, e indica il punto di partenza, soprattutto con verbi di movimento. Anche con BHŪ- “essere lontano”, HAN- “allontanare colpendo; abbattere”, GUR- “disapprovare; minacciare”.

ápi come preverbo nota un contatto stretto: con DHĀ- “chiudere”, BHŪ- “far parte integrante di”. Rari usi adnominali (“su” o “vicino a, presso”), regime L. Su ápi particella, v. 437.

Abhí (“verso”) si usa con verbi di movimento ed è spesso transitivante; ad esempio con PAD- “attaccare”, CAR- “esercitare un’azione magica” (frequente sfumatura di ostilità); con AS- 1 “superare; minacciare”. L’uso preposizionale, a regime Ac., dà i sensi di “verso” o talvolta “sopra” (yó vívśvā bhúvanābhí sāsahíḥ III 16 4 “che prevale su tutti gli esseri”). Raramente L. (II 31 2) o Ab. (“senza” o “in relazione a”) I 139 8.

378. áva “dall’alto verso il basso”, ad esempio con TṜ- “abbattere”, SĀ- “sciogliere”, ma semplicemente “guardare” con KHYĀ- e analoghi; “tagliare (completamente)” con BHID- e analoghi; con YAJ- “allontanare col sacrificio” o “soddisfare la divinità”. L’uso adnominale (Ab.) è molto raro (formula áva diváḥ “dal cielo”; anche dyúbhiḥ).

Ā come preverbo, segna un movimento verso o una posizione in un determinato luogo (transitivante: BHĀ- “illuminare”, DIŚ- “mirare a”); ma più spesso un movimento in direzione del soggetto (uso simile a quello espresso dalle desinenze medie): per esempio con DA- “ricevere, prendere”, DHĀ- “prendere, assumere”, KṚ- “portare; guadagnare”, BHŪ- “assistere”. L’uso preposizionale avviene soprattutto con regime L. (dove ā precisa la desinenza senza aggiungere una sfumatura notevole, mā́nuṣeṣv ā́ “tra gli umani”); anche Ac. (più raro), con sfumatura di scopo; Ab. nel senso di “da (spaziale), partendo da, fuori da” (figurativamente, per notare una preferenza, víśvā ca na upamimīhí… vásūni carṣaṇíbhya ā́ I 84 20 “e assegnaci tutti i beni di preferenza alle [altre] tribù”); o nel senso di “fino a” (spaziale) (yati giríbhya ā́ samudrā́t VII 95 2 “andando dalle montagne al mare”), la nozione di limite evolvendo in due accezioni opposte. In molti di questi usi, specialmente nell’ultimo citato, ā́ è anteposto al regime. — Su ā́ come particella, v. 437. úd è puramente preverbo, movimento verso l’alto, verso l’esterno: ad esempio con GĀ- 2 “intonare (un canto)”, MUC- “sciogliere”; transitivante, TŪ- “rendere efficace”.

379. úpa (“vicino a”) con I- “avvicinarsi, prendere parte a”, SAD- “avvicinarsi per onorare”; transitivante, JĪV- “vivere di”. Il valore di approccio indiretto, spesso con sfumatura di devozione, distingue la parola da abhí che sottolinea il lato “forza”, o da ā́, che accentua l’integrazione. Si trova a volte úpa come preposizione con l’Ac. nel senso di “verso”, raramente “sotto (la volontà di)” AS. XIX 31 7; L. “su” e, formularmente, úpa dyúbhiḥ “giorno dopo giorno”.

ha solo la funzione di preverbo, per significare “dentro”, ad esempio con YAM- “trattenere, far rientrare (un attacco); cedere” SVAP- “addormentarsi (morte)” VṚT- “girare indietro; rientrare”; figurativamente KṚ- “umiliare, dominare”: davanti a diversi verbi, “placare”.

Nís è anch’esso un puro preverbo e significa “fuori”, da cui, con KṚ-, “fabbricare, preparare; respingere; guarire” JNĀ- “discernere” BHAJ- “escludere” DAH- “distruggere bruciando”; transitivante, MANTH- “far sgorgare per sfregamento”.

Su íṣ-KṚ-, v. 45 104.

Pára, come preverbo, segna l’allontanamento, I- “andarsene; morire” DĀ- “consegnare, far perire”. Da notare con JI il senso di “essere sconfitto (passivo!); perdere” (anche: “vincere”).

Palā́, v. 67.

Pári, come preverbo, significa soprattutto “attorno”: BHUJ “circondare” MĀ-1 “misurare un perimetro” STHĀ- “impedire”; in senso figurato, JÑĀ- “conoscere in dettaglio” BHŪ- “dominare; raggiungere”; l’azione è considerata nella sua totalità, quindi dominata. Sfumatura di “mancanza” (per contrasto con un’attenzione concentrata su un punto preciso) in CAKṢ- “lasciar passare (senza vedere)” MAN- “trascurare”. Pári è talvolta adnominale, con l’Ac., nel senso di “attorno” o “al di là di” (mā́ śū́ne agne ní ṣadāma nṛṇā́m pári tvā VII 1 11 “non siamo seduti intorno a te nell’assenza di eroi”); in formule temporali, madhyáṃdinam pári “verso mezzogiorno”. Più frequentemente si ha l’Ab. nel senso di “da (attorno a)”, poi semplicemente “da (origine), partendo da”, tvám adbhyás tvám áśmanas pári… jāyase II 1 1 “tu nasci dalle acque, tu (nasci) dalla roccia”).

380. Prá, come preverbo, indica “in avanti” (per allontanarsi, più spesso per dirigere verso), con PAT- “volare via” I- “partire; morire” MUC- “sciogliere, cessare” BHṚ- “offrire, mettere in onore” JÑĀ- “riconoscere, determinare”. Nuance ingressiva HU- “iniziare a offrire”; nuance continua PĀ-1 “bere (continuamente)”. Con MAD- “distogliersi da”. Non ha impieghi adnominali.

Plá, v. 67.

Práti, come preverbo, significa “contro” (ma la nuance è meno “ostile” che in abhí: “incontro a” o anche semplicemente “davanti a”): DṚŚ- “essere percepito” (con desinenze medie) PAD- “rispondere” STHĀ- “prendere appoggio” JUṢ- “accontentare” AS-1 “essere all’altezza”. Con MUC- (“liberare”): “mettere (un vestito, ecc.)”. Si riscontrano impieghi preposizionali con l’Ac., nel senso di “verso” o “contro”, ágne rákṣā ṇo áṃhasaḥ práti ṣma deva rī́ṣataḥ, VII 15 13 “o Agni, proteggici dall’angoscia, contro coloro che ci vogliono male, o dio”; a volte, “secondo” II 15 10 “come” VI 30 1. Con il L., sfumatura distributiva VIII 82 1. Formule práti váram “secondo il desiderio” práti vástoḥ (Ab.?) “all’alba”.

appare solo con i verbi e segna una divisione, una dispersione; in senso figurato anche una discriminazione, un’estensione; ad esempio con STHĀ- “diffondersi, distribuirsi” HŪ- “chiamare da varie parti” PṚŚ- “cercare (interrogando)” BRŪ- “litigare”; transitivante, VAS-1 “illuminare”. Negativo (influenza di vi° nominale) con DĀŚ- “negare” PṚC- “svuotare”.

Infine sám, che non ha impieghi adverbiali o adnominali, ha il significato di “con, insieme”, per sottolineare il legame tra due agenti rispetto alla stessa azione (PĀ-1 “bere insieme”) o tra l’azione e l’oggetto (PIṢ- “premere contro”); sáṃVYAC- “rotolare” è l’opposto di VYAC-. Sám rinforza o precisa in vari modi il processo, JI- “conquistare” HAN- “schiacciare; chiudere” BHŪ- “venire all’essere”.

381. La presenza di due preverbi non è rara, il primo tende ad avere un valore adnominale. Solitamente sono separati l’uno dall’altro, il secondo in contatto con il verbo (ma tonico); solo ā́ attrae a sé un preverbo precedente, ad esempio upā́gahi “arriva qui”. In frase subordinata i due preverbi sono solitamente accostati, il primo mantenendo o meno il tono.

  1. Il caso di tre preverbi (a contatto) è molto raro, anusampráyāhi AS.
  2. ā́ è quasi sempre in seconda posizione se c’è un altro preverbo; è considerato parte integrante del verbo. Párā è anche in seconda posizione e quasi sempre anche áva; ánu ádhi abhí sono quasi sempre in prima posizione.
  3. Nei nomi verbali, due preverbi a contatto hanno un tono sul primo (abhí saṃcaréṇyam) o sono atoni (viprayántaḥ).
  4. Ripetizione del preverbo, sia separato (ā́ … ā́ I 88 4 III 43 2), sia in āmreḍita (sáṃ-sam, passim).

Gli impieghi dei preverbi hanno reagito gli uni sugli altri, creando opposizioni o adattamenti secondari. Così ví-PṚC- 380 prá-CṚT- AS. “sciogliere” ápa-VṚ- e vi-VṚ- “aprire” áva-RUH- “scendere” áti-GĀH- “emergere” vi-KRĪ- “vendere” ápa-RĀDH AS. “mancare”, ecc.; così si creano alcune sfumature privative. A volte si hanno preverbi diversi associati allo stesso verbo senza variazione d’uso, come se la scelta del tale preverbo fosse di poca importanza.

Un caso estremo è la combinazione sám… ā́ óhate ví II 23 16 “afferma… (e) nega”.

382. A volte gli usi “semplici” derivano da impieghi con preverbi: MAN- “desiderare” VII 4 8 (e altrove) è fatto su abhí-MAN-; similmente krámasva AS. TV 4 7 (“saltare”), BHŪ- I 46 11 su vi- BHŪ-, STHĀ- VI 18 9 su ádhi- STHÀ-, MĀ- IV 44 6 su upá-MĀ-, ecc. Molti impieghi con preverbi sono, invece, indistinti dagli impieghi “semplici”; considerazioni di volume, ritmo hanno dovuto giocare a favore dell’aggiunta di un preverbo e di tale preverbo particolare.

  1. Per l’uso stilistico dei preverbi, v. 456.
  2. Appartenenza dello stesso preverbo a due verbi consecutivi, vy àstabhnāt… akṛṇot VI 8 3; prob. ṛṇvati… vy ṛ̀ ṇ vati I 128 6 ní… dadh- ré… jíhīta 37 7; a tre verbi (?) sám… mā́rjmi dídhiṣāmi… dádhāmi II 35 12.
  3. I preverbi compaiono talvolta in modo variabile con le diverse forme di uno stesso verbo. Un caso tipico è quello del tema bíbhar- attestato senza preverbi, di fronte ai temi bhára- jabhā́r-, ecc.; in larga misura anche háva- di fronte a huvá- e soprattutto hváya-.

383. Parole preverbiali. — Si trovano come elementi prefissi davanti alle forme personali del verbo (ma mai perdendo il tono) alcune parole diverse dai preverbi: cioè avverbi come tirás “attraverso”, purás “avanti”, āvís “palesemente” (prādúr “id.” dall’AS.). Ma gli impieghi sono limitati, gli unici verbi attestati sono KṚ- BHŪ-, talvolta DHĀ-, isolatamente qualche altro ancora, che sembrano un semplice supporto verbale all’atto notato dall’avverbio. L’unico tratto “composizionale” è l’eventuale presenza (rara comunque) di un assolutivo in -(t) (come con i preverbi, cf. 374), che comporta la perdita del tono: namaskṛ́tya AS. “avendo reso omaggio”. La “tmesi” è attestata in questa serie: così śrád asmai dhatta II 12 5 “date fiducia a lui”, che scompone l’espressione composta śrad-DHĀ- dove il primo elemento è un tema nominale śrad (prob. śradh-) fisso, come anche in śrát. KṚ-, stesso senso.

Non c’è quindi composizione verbale nel senso in cui si parla di composizione nominale. Al massimo, si può vedere l’embrione di un’espressione verbale complessa nella formula sukṛtā́ kṛṇvantu I 162 10 “preparino come si deve” dove sukṛtá- (fisso al pl. nt.?) sostituisce un sú kṛṇvantu che mancava di sostanza.

  1. Vedi anche vayúnā kṛnota I 162 18 “preparate” e alcune altre espressioni più o meno dubbie (eventualmente mahā́ bhūtvā́ 247) che potrebbero essere ricondotte alle formule interiettive in -ā́-KṚ- citate 392. Un altro tipo di perifrasi sarebbe attestato in *dasmát KṚ-1 74 4 “rendere efficace”.
  2. Per quanto riguarda il tipo post-vedico in -ī́-BHŪ-, -ī́-KṚ-, si è tentato di vedere i suoi inizi in *śā́kī bhava I 51 8 “sii forte” sárī bhava 1 138 3 (senso?), poco probante; più plausibilmente in vātī́kṛa- AS., soprattutto se il senso è davvero “trasformato in vento”. Anche qui, le espressioni onomatopeiche in -ī́-KṚ- 392 o avverbiali (come mithū kaḥ e m° bhū́t) sono avanti alla formazione nominale corrente. Forse anche avyathī́ḥ kṛṇuta X 31 10 “rendete esente da vacillare” implica un avyathī-KṚ- normalizzato secondo la parola vicina vyáthiḥ.
  3. Se le forme personali del verbo non entrano nella composizione nominale, invece c’è un caso chiaro di āmreḍita, píba-píba II 11 11 (ma altrove, accostato con doppio tono: préhi préhi, ecc.).

384. Preposizioni - Oltre ai preverbi che funzionano come preposizioni, dei quali sono stati ricordati i principali impieghi, esistono avverbi di origine diversa che “governano” nomi in vari casi, in particolare il Genitivo (G.) e l’I. (I.). Si tratta di casi con i quali raramente si incontrano vere preposizioni.

Ci sono ad esempio regimi con Accusativo (Ac.) come con antarā́ “fra”, abhítas “intorno”, upári “sopra” (e G. probabile in bhū́mijā upári X 75 3 “oltre la terra”). Il regime al G. è presente soprattutto con purástāt “davanti”; Ab. con adhás “sotto” (Ac. VII 104 11) e avás “id.” (I. I 163 6); con ṛté “senza” (G. almeno IV 33 11); analogamente con āré, di senso simile; infine, l’Ab. (nominale o infinitivo) è anche governato da purā́ “prima (temporale)” o “a eccezione di, a protezione da” e altri.

Un regime L. si trova con sácā “in compagnia di, fra” (G. V 74 2 X 93 5), mentre il gruppo di altri avverbi di senso simile, sahá, sākám, s(u)mád, hanno l’I. I regimi, come si vede, sono scarsamente stabilizzati e incompletamente specializzati. Una parola come parás “al di là” si trova con l’Ac. (VIII 2 41 X 82 2), il L., l’Ab. e soprattutto l’I..

La maggior parte degli impieghi sono isolati e coincidono con usi puramente avverbiali. Come nelle preposizioni propriamente dette, la posizione è poco regolata: anteposizione, postposizione (entrambi i procedimenti con purā́), separazione dal regime (come per ṛté).

385. Avverbi - Gli avverbi sono estremamente numerosi. Tra questi, ci sono forme nominali fisse (inclusi composti), nomi con suffisso propriamente avverbiale, e parole più o meno determinabili.

Tra le particolarità morfologiche, che interessano solo gruppi ristretti, ci sono il trasferimento di tono (387), l’indebolimento delle caratteristiche pronominali (ibid. e 391), e il mantenimento di finali consonantiche laddove la derivazione nominale presenta finali in consonante + a (vedi sotto e 390 sq).

Tra le forme casuali, naturalmente poco distinguibili in parte da valori propriamente nominali, le desinenze dominanti sono l’Ac. e l’I. (sg.). L’Ac., esprimendo la durata o lo spazio percorso, il modo, la direzione, la relazione, quindi più liberamente impiegato che nel nome, si trova ad esempio in aggettivi come purú “molto”, urú “lontano”, śáśvat “incessantemente”, didṛ́kṣu (con tono!) “nel mio desiderio di conoscere”, suhántu “in modo che (esso) sia facile da uccidere”, mahā́m II 24 11. Gli impieghi sono molto variabili a seconda delle parole. Frequenti, in particolare, gli aggettivi in -añc-, al neutro, e i loro derivati, ānūkám “da dietro”, ecc.

  1. Alcuni participi con tono avanzato, patayát I 4 7 “affrettandosi” (ma vedi 459), ṛdhát VI 2 4 “con successo” (forse tāját AS.?), un nome-radice in fine di composto, akṣipát “un po’” (propriamente “ciò che cade sotto gli occhi”), un ordinale come sahásram X 1510, 79 5 “mille volte”. Rari sono alcuni suffissi come -vat (tranne 390 fin.) e -mat (forse tvā́vat X 100 1 “nel modo che gli è proprio”).
  2. Alcuni temi senza controparte nominale sono niṇík “in segreto”, madrík (e madryadrík “verso di me”) che si basano su una finale ridotta del neutro comune in -yak (madryàk è attestato anche).

I sostantivi figurano in impieghi composizionali, nā́ma “quanto al nome” (da cui, già nella RS., “in particolare; in realtà”) o in modo kā́mam “secondo (il proprio) desiderio”. Produttivi sono gli impieghi pronominali (adás “là”, idám “qui; ora”) che facilmente si orientano verso il ruolo di particelle.

Gli avverbi derivati da preverbi utilizzano il suffisso “intensivo” -tarám, come vitaráṃ vi kramasva IV 18 11 “cammina lontano, più lontano!”; l’Acc. f. -tarā́m appare dall’AS., dove sostituisce -tarám; analogo upamā́m V 34 9.

Un’altra parola d’aspetto f., senza controparte nominale, è tūṣṇī́m 42 (finale come idā́nīm 389?): eventualmente sádhrīm “verso un unico obiettivo”, adattamento di sadhá secondo sadhryàñc- (dove la finale -ryàñc- deriva da tiryàñc- 195).

386. L’ I. sg. (anche pl.) esprime il modo, le circostanze, così come il tempo e lo spazio. Ci sono, in particolare, nomi (sostantivi e alcuni aggettivi) in -as-, come sáhasā e sáhobhiḥ “con forza”; altri, ágreṇa “in avanti” (accanto a ágram, ágre), dívā “di giorno” (in opposizione a náktam: discordanza casuale) e dyúbhiḥ “lungo i giorni”.

È notevole l’estensione data a una finale -ā́ che si attacca a temi che non forniscono flessione, o almeno la cui flessione non comporta normalmente questa finale. Ad esempio amā́ “a casa” (vedi 287), uccā́ e analoghi (anche uccaís 259). Esiste un gruppo compatto in -yā́, inizialmente su temi in -u- (dopo sillabe pesanti), come āśuyā́ “rapidamente” (ma, invece di uruyā si ha urviyā́ “a lungo”, apparentemente fabbricato sul femminile urvī́-; vedi urvyū̀ti-), poi su temi in -a- (con -a- finale mantenuto), ṛtayā́ “secondo l’ordine” (ṛtá variante di ṛtú-); da cui una nuova finale in -ayā́, āsayā́ “di fronte” (dal nome-radice ā́s-), naktayā́ “di notte” (ubhayā́ “in entrambi i modi”, aplologia per - yayā), e anche kuhayā́ “dove?” che allarga kúha. Si ha -yā́ dopo consonante in víśvyā (tono insolito) [víśvayā° VIII 68 2, tono di V.] “ovunque”, tmanyā́ “da sé” (I X). Il collegamento tra la finale -ayā́ e l’I. f. dei nomi in -ā- (pāpáyā “in cattivo modo”) è debole; il punto di partenza di -ayā́ potrebbe essere il pronome ayā́. (I. sg. f.) “così”; quello di -uyā́ il pronome amuyā́, “in quel modo”. La produttività del’I. avverbiale su basi pronominali è considerevole.

Quanto ai nomi in -ā-, la finale dell’I. in -ā è meglio attestata negli avverbi che nei nomi, vedi 268 n. 2, ma non è necessario postulare una base in -ā- per spiegare ogni finale avverbiale in -ā. Forme come puruṣátā puruṣatvátā “alla maniera degli uomini; tra gli uomini” possono essere spiegate da un suffisso avverbiale in -, vedi 390.

387. Il D. è raro: aparā́ya “per il futuro”, várāya “secondo il desiderio”. Raro anche il G., aktós “alla (fine della) notte”, vástos “al mattino” (quindi, sfumatura temporale). Più frequente il L., ágre “di fronte”; al pl. aparī́ṣu (f., tono distinto e formazione femminile distinta) “nel futuro”. Il pronome tmán è anche un L. avverbiale, a valore debole, che raddoppia l’I. tmánā: sembra l’unico L. a desinenza zero usato avverbialmente.

Infine, l’Ab. comprende il valore di origine (ārā́t “da lontano” o semplicemente “lontano”) o di modo (sākṣā́t “visibilmente”). Sulla base pronominali, ā́d “allora”, tā́d “così” (perdita delle caratteristiche pronominali!).

Il N. avverbiale è insolito anche se, teoricamente, diversi Ac. potrebbero essere interpretati come N.; avaras°179 n. non è sicuramente un N. m. Resta al massimo kís in nákis mā́kis 290, che deriva da un uso reale di N. animato; quanto a sajóṣās usato come avverbio al N. m. fisso (I 118 11 IV 56 4), è una conseguenza dell’uso delle finali maschili in funzione di neutro secondo 243 396. — Vedi anche il caso di yós 270 n. 1.

Un tratto significativo è il trasferimento di tono, che in generale avviene in direzione dell’ossitonizzazione. Si ha per l’Ac. nei participi in -át 385, nelle finali in -tarám ibid. (alle quali si unisce aparám), così come in aggettivi di direzione che presentano lo stesso fenomeno in altri casi (D. aparā́ya), Ab. adharā́t, I. apākā́ (“lontano”) e altri della stessa struttura, L. dakṣiṇé. Inversamente, l’avverbio dívā arretra il tono rispetto all’Istrumentale nominale divā́: gúhā “in segreto”, mṛ́ṣā “invano”, sácā “insieme” avrebbero come controparte, se esistessero, uno Strumentale nominale a tono desinenziale.

388. Composti avverbiali - I composti si formano sia per giunzione di due avverbi (raro) sia per avverbializzazione di un composto nominale già esistente o virtualmente possibile, come nānārathám “su diverse carrozze” (ossitonizzazione, a differenza di sarātham “sulla stessa carrozza”), saṃvātsam “durante un intero anno” (cf. il derivato nominale saṃvatsará- “anno”), samakṣám (da ákṣi- “occhio”) “di fronte”. Le caratteristiche sono le stesse della composizione nominale: l’ultimo esempio mostra un caso di allargamento in -a- (samāsānta).

Il tipo più nettamente avverbiale è la giunzione di una parola reggente - preposizione o termine preposizionale - e del suo regime (tipologia detta avyayībhāva): ādvādaśám “fino a dodici”, otsūryám AS. “fino al sole”, pratidoṣám e pra° “verso sera”, pratikāmám “secondo (il proprio) desiderio”, abhipūrvám AS. “nell’ordine”. La frequenza delle espressioni analitiche concorrenti, ánu jóṣam, fornisce il punto di partenza, più ancora dell’espressione composta aggettivale (tipo anukāmá- ánuvrata-), che è di solito secondaria rispetto all’avverbio, cf. 183.

Gli usi di avyayībhāva, relativamente rari nella RS., si diffondono in seguito: si noti la predominanza delle finali in -am, ottenute parzialmente tramite una tematizzazione (come in °doṣám da dosā́-); la finale samāsānta -ya- appare dal Libro X (es. abhinabhyám “vicino alle nuvole”). L’unico caso a finale non allargata sarebbe upaṣṭút se il senso è veramente avverbiale “verso i canti di lode”.

Lo stesso impiego “reggente” di yáthā° si trova in yathāvaśám, che significa “secondo il proprio desiderio”, e in espressioni analoghe (rare nella RS.), dove l’origine analitica è evidente. Isolatamente, yādrādhyàm significa “quanto più possibile” (ma “yācchreṣthám”, che significa “nel miglior modo possibile”, è stato nominalizzato, come altre espressioni). Inoltre, con un avverbio preposizionale, ṛtekarmám (con finale tematizzato) significa “senza attività”.

Predominante il tono finale, tranne in alcune forme post-védiche come pratikū́lam e anukū́lam AS. “controcorrente” e “a favore della corrente”.

389. Derivati avverbiali - I suffissi avverbiali si trovano principalmente nelle categorie pronominali e numerali; da qui si sono attaccati a temi nominali, inizialmente a quelli che per senso si avvicinano ai pronomi o ai nomi numerici. Così è puramente pronominale il suffisso temporale -dā́, come in idā́ “ora” kadā́ “quando?”, dove originariamente l’elemento -d- doveva appartenere al pronome di base e propagarsi, come in sádā “sempre” sarvadā́ “ovunque”.

-dam in sádam “sempre” (tematizzazione analogica); -dā́nīm in idā́nīm “ora” e altri, finale come tūṣṇī́m 385. Nominalizzazione in viṣvadā́ni- TB. Un altro suffisso, che indica il tempo lontano, è in -rhi (-r- per -d- secondo lo scambio notato in 100 n. 1?), kárhi “quando?” (unica forma nella RS. antico).

Di fronte a yadā́ temporale, c’è yádi “se”, dove l’elemento -i è chiaramente deittico (conforme al suo ruolo sintattico 453) e probabilmente si ritrova in tādī́tnā “in quel tempo” (I) (costruito sull’avverbio tā́t con il suffisso temporale -tna avverbializzato).

Un importante suffisso locale è -tra (parossitonizzazione), con -a allungabile: kútra “dove?” átra “qui”. Un doppio tonico -trā́, con -a finale necessariamente lungo, parte anche da basi pronominali come asmatrā́ “da noi” o satrā́ “insieme”, ma si diffonde in temi nominali, devatrā́ “presso gli dei” e persino (caso estremo) śayutrā́ “sul letto” (formule in -trā́ KṚ-).

Il suffisso -thā, tono fluttuante, forma avverbi di modo partendo da kathā́ “come?” (tematizzato anche in kathám), imā́thā “in questo modo” itthā́ (e itthám) “così” (da íd 286), áthā (di solito con finale abbreviata e ruolo di particella 439). Da lì, ṛtuthā́ “secondo la distribuzione” nāmáthā AS. “per nome” (avanzamento tonico di una sillaba).

Primario vṛ́thā “a piacere”, cf. váram.

390. Il suffisso -dhā (“in tale modo, per tante volte”), con finale abbreviabile, compare in alcuni pronomi, come sámadhā Kh. “nello stesso modo” (doppione in -ha in samaha, atono), ádhā (diventato particella 439), addhā́ (da ad- cf. 287) “infatti”; in nomi numerici, dvídhā “in due modi, in due parti”, tridhā (e tredhā́ 4), ṣoḍhā́ 57 73, da cui (-dhā́ tonico) bahudhā́ “in molti modi” e analoghi śaśvadhā́ 223. Rari ampliamenti oltre queste categorie: priyadhā́ TS., var. con predhā́ MS. (fatto come préyas-) “in modo gentile o amorevole”, mitradhā́ AS. “in maniera amichevole”.

-dhă prevale in sadha° “con” kudha, spiegando akudhryàk (X) “senza sapere dove”, fatto su sadhryàk 385 195. Doppio in -ha (-) in samaha citato, in sahá “con”, ihá “qui” e alcuni altri, cf. 58. Su viśvā́hā, v. 43.

śás è puramente numerale all’origine (śataśás “cento per cento” AS.; la RS. ha solo sahasraśás “a migliaia”); da cui ṛtuśás (I X) “secondo la distribuzione (numerica)” e, più lontanamente, manmaśás “ognuno secondo il suo desiderio”.

-tāt (probabilmente da Ab. nominalizzato del pronome tá-) amplia avverbi di direzione con finale -as -ak -āt, come avástāt “dal basso” (nuance ablativa spesso cancellata), da cui upáriṣṭāt “dall’alto” (con finale allargata -stāt).

  1. - (I. fisso su base in -t?) in dvitā́ (base numerale?) “di nuovo; da sempre”, sasvártā “di nascosto”, tiraścátā “trasversalmente”. In bāhútā “nelle braccia” e soprattutto devátā “tra gli dei”, l’origine nominale del suffisso è probabile, ma cf. 222. Una tematizzazione di - è -tám in muhūrtám “in un istante”, se non si accetta l’analisi ricordata in 163 n. 1.
  2. ? in vinā́ “senza” AS. XX (congi.) (vinam° RS.?), nā́nā “diversamente”, con doppio nānam sviluppato in nānānám (X), samanā́ 199.

Infine, -vát “come” (sicuramente distinto dal nt. del suffisso aggettivale -vant-, nonostante i derivati pronominali mā́vant- tvā́vant- 283 tvā́vat adverbialmente 385 che potrebbero fare da collegamento) appare dopo alcuni sostantivi (eventualmente anche composti) e aggettivi, come ṛṣivát (X) “come un ṛṣi”, āśumát AS. “come (una bestia) veloce” è uno spostamento isolato di vát in -mát secondo gli aggettivi in -mant-.

391. Un importante suffisso, meglio rappresentato nelle basi nominali rispetto ai precedenti ma comunque di origine pronominale, è -tas (spesso accentato), Ab. di un’allargamento avverbiale in -t. -tas ha il valore di Ab. (origine), spesso peraltro indebolito. Lo troviamo dopo i pronomi in átas (“da qui”, così come itás), mattás (“da me”) satás° 174 (dopo il preverbo: abhítas “intorno”). Dopo temi nominali, abbiamo ṛbhutás (“dei Ṛbhu”, equivalente all’Ab. plurale) hṛttás (“dal cuore”) (X) patsutás (dal locativo plurale patsú, “ai piedi di”) (accanto a pattás), e alcuni altri: ma la maggior parte degli altri temi ha legami più o meno evidenti con i pronomi. Un accordo formale con l’Ab. appare da tátaḥ ṣaṣṭā́t AS. VIII 9 6 “da questo sesto”.

L’elemento -ak, derivante dal nt sg. delle parole in -añc- 195, viene trattato come suffisso in viṣuṇák (I) “da diversi lati”, vṛthak = vṛthā, che ha portato a pṛ́thak “separatamente”, ṛ́dhak “idem”; probabile anche āyuṣák “con vitalità” (da cui gabhiṣák AS. “in profondità”?), manānák “in pensiero pio”; -(u)k in híruk (I) “separatamente” (anche hurúk “erroneamente”); -k in jyók “a lungo” (j alterato da d cf. 79 n. 1; per il senso, cf. pradívas e °dívi, ánudyū́n). Si noti l’importanza relativa delle finali in occlusiva, rare nella derivazione nominale (188 fin.). Un -(a)k- infisso (214) si riconosce in sākám “con”, derivato da sám.

Varie: finali in -s; a) in purás “davanti”, mithás “reciprocamente”, probabile parás “lontano”; b) negli adverbi moltiplicativi dvís “due volte”, trís, da cui (AS.) catús; c) in anyedyús AS. “un altro giorno” (dove c’è anche il fatto notevole che la desinenza nominale di L. sg. è presente nel membro anteriore, contrariamente a 292); d) -us (o -ur?) in múhuḥ (=”improvvisamente”) a fianco di muhuké -kaís (stesso senso) (eventualmente muhūrtám 390).

Altri adverbi moltiplicativi sono formati con la parola kṛ́t(u)- cf. 206: sakṛ́t “una volta”, aṣṭakṛ́tvas AS. “otto volte” (ibid. dáśa kṛ́tvas “dieci volte” in due parole); la RS. ha solo bhū́ri e śáśvat kṛ́tvas.

Finali in -r in prātár “al mattino; domani” (da cui prob. prādúr 383), come aspetto atematico di - tarám 385; in avár 133 (accanto a ávara-), amnár AS. e alcune altre parole più o meno analizzabili (eventualmente anche upár-i e parole citate in 138 n.) [sanitúr?].

Finale -ít (variante fonetica di -ik secondo 100?) in dakṣíṇít (“con la mano destra”) (dissimilazione) (taḍít “molto vicino”?) e alcuni altri, da cui forse -vít in cikitvít 195 sācīvít Nigh. prakalavít (senso?).

-u (-ū) in muhu(ká-) citato, míthū = mithás citato, e, per sostituzione a una finale -ā (cf. 22 n. 1) anuṣṭhú e suṣṭhú ad loc. (suṣṭhú è aggettivato nella RS.).

392. Interiezioni - Relativamente frequenti, considerando la natura dei testi. Esortative come hánta (davanti a un congiuntivo) o più spesso esclamative come bata (enclitica). Serie di onomatopee popolari, espressive, che entrano facilmente in perifrasi verbali (ausiliare AI?-), come kikirā́ kṛṇu o ciścā́ kṛṇoti nella RS. antica. Con finale composita (cf. 383 n. 2), (akhkhalīkṛ́tyā (assolutivo) (doppia aspirata secondo 49) o (con BHŪ) alalābhávant- (fonema l !). Dalla RS. recente, espressioni che indicano suoni rituali, come híṅṅ akṛṇot. Śám (śáṃ yós) e svā́hā 58 sembrano di origine nominale. Nello Yajurveda appaiono distorsioni di forme verbali per scopi rituali, come váṣaṭ (KṚ) (già nella RS.) = vákṣat, aoristo di VAH-, o śraúṣaṭ cf. 93 100. Nell’Atharvaveda, phát báṭ e molti altri.






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