sanscrito vedico

sintassi



CAPITOLO VI

SINTASSI

393. Ordine delle parole. - L’ordine delle parole è estremamente libero, almeno nei versi (mantra propriamente detti), mentre è generalmente fissato strettamente nella prosa (yajus). Nei mantra accade frequentemente che elementi sintatticamente associati, in relazione di dipendenza, di apposizione, di nome ad epiteto (come un V. e le sue appartenenze) siano separati l’uno dall’altro; che elementi senza connessione siano invece avvicinati, specialmente in presenza di allitterazione. Le considerazioni affettive, armoniche, eventualmente rituali, pesano più dell’ordine naturale delle parole. Ci sono comunque certe tendenze: soggetto all’inizio, verbo alla fine della proposizione (tranne l’imperativo, che è spesso iniziale). Nella frase nominale, l’apposizione di due sostantivi comporta normalmente il predicato prima del soggetto, come nel tipo (in yajus) prajā́patiḥ sā́ma TS. III 3 2 a “il sāman è Prajāpati”.

Tra le posizioni preferite (talvolta addirittura quasi obbligatorie) c’è l’anticipazione di alcune particelle, compresi i preverbi (quando sono separati dal verbo); l’enclisi (peraltro variabilmente concepita) di altre particelle, con sopravvivenza piuttosto frequente (anche per i pronomi “deboli”) della seconda posizione originariamente valida per tutti gli enclitici di frase.

Le congiunzioni subordinanti sul tema yá- sono spesso al secondo posto dove una parola più forte richiede la posizione iniziale: gli inizi di mantra in prá yát (yé) sono caratteristici, rispetto al tipo del tutto insolito yáḥ prá.

In generale, il pāda prevale sulla frase, nel senso che l’ordine delle parole si stabilisce in funzione del pāda (cfr. 94): il passaggio da un pāda all’altro, pur essendo possibile e in certe condizioni anche frequente, non prevale sul fatto che le relazioni sintattiche sono da stabilire prima di tutto nei limiti del pāda.

  1. I gruppi copulativi o giustapposti seguono volentieri l’ordine degli elementi del dvandva (170): la parola più breve in testa, gómad áśvāvat passim “ricchezza in vacche, in cavalli”; o la più importante, váruṇa mítra passim (ma l’ordine inverso — conforme qui al dvandva — è altrettanto frequente). Śūdrā́ya cā́ryāya ca VS. XXVI2, ecc., come il composto śūdrāryá- VS., esprime il desiderio di evitare la soluzione più pesante ārya [eventualmente āriya] -śūdra-.
  2. Il V. è più spesso interno che iniziale: solo índra e soprattutto ágne iniziali sono frequenti.

La tendenza è di variare all’interno di formule antitetiche: tám mātā́ reḷhi sá u reḷhi mātáram X 114 4 “la madre lo lecca, lui lecca la madre”; spesso in questo caso il verbo della seconda proposizione è accostato al verbo (finale) della prima, prā́nyā́ tántūṃs tiráte dhatté anyā́ AS. X 7 42 “una stende i fili, l’altra li mette (sul telaio)”: in tali casi il preverbo separato, qui come altrove prende il posto del verbo, yúdhyai tvena sáṃ tvena pṛchai (citato 291).

Il confronto delle due Saṃhitā dell’AS. mostra una vasta variazione, di solito immotivata. Il fatto che l’enfasi sia presunta ricadere su questo o quel termine rimane la maggior parte del tempo senza significato reale.

Una volta terminata la frase, c’è una certa tendenza a prolungarla con una “Schleppe” [n.d.t. coda] che occupa ad esempio l’ultimo pāda: agnínā rayím aśnavat póṣam evá divé-dive/ yaśásam vīrávattamam I I 3 “che ottenga per Agni ricchezza (e) prosperità giorno dopo giorno, — gloriosa, molto abbondante in eroi”. Questi prolungamenti sono occupati in modo tipico, almeno in yajus, da D. a valore finale: suprajāstvā́ya TS. I 1 10 k “per avere una bella posterità” (-tvāya costante in questa posizione).

394. Uso del numero e accordo di numero. - L’uso del duale è rigoroso, per esprimere una coppia accidentale o una coppia naturale (eventualmente, la divisione bipartita di un’unità, áhanī “le due parti del giorno”, e anche dvā́ mithunā́ X 17 2 “una coppia”). Tuttavia, i nomi di coppie naturali possono essere messi al plurale se è indifferente notarne il numero, se ad esempio si tratta di valori metaforici. Si ha così nel pronome l’alternanza del du. (o del sg.) e del pl. (nas/nau) X 10 4; casi analoghi (in parte, immediatamente spiegabili) I 167 8a III 57 1d, 2b IV 15 10c VI 62 2b VII 52 2a, 64 3b X132 3b AS. XIV 1 39 d, dove il soggetto è per es. (aśvínā o mitrā́váruṇā, il verbo al pl. (aryamā́ sottinteso, ecc.); inverso I 122 11a V 67 1d.

In ubháya- 294 il du. è inattestato e il pl. indica due gruppi.

Il plurale si usa frequentemente dove ci si aspetterebbe il singolare, e non solo nei casi banali dove si vedrà in parte dei “plur. majestatis” (vayám per ahám, tipico del pronome 1ª pers.): ma anche nei nomi d’azione (soprattutto all’I., tipo ūtíbhis, śrávobhis; anche, śrávāṃsi ai casi diretti), che irradiano una nozione unitaria in una molteplicità di atti virtuali; “manifestazioni di aiuto, di gloria, ecc.”

395. Il duale può comprendere due individui diversi (ma naturalmente associati), tipo mitrā́ = Varuṇa e Mitra: è il duale “ellittico” 167. Si può avere anche un pl. ellittico in un caso come hótāraḥ II 1 2 “l’hotṛ e gli altri officianti” o, parallelamente a dei sg. che fanno parte della stessa enumerazione, váruṇaḥ… mitrā́so aryamā́ VII 38 4 “Varuṇa, Mitra, Aryaman” o vā́jo víbhvām̐ ṛbhávaḥ IV 36 6 “Vāja, Vibhvan, Ṛbhu”: è l’estensione del giro duale índrā… varuṇa 167 n.

In caso di più soggetti, l’accordo di numero avviene sia con tutti, sia con uno solo (l’ultimo), sia che si tratti del verbo o di un’epiteto. Analogamente, troviamo un epiteto al V. sg. che si riferisce a due o tre nomi divini, I 151 4 a V 67 1a VII 60 12a, ma i casi sono foneticamente poco probanti.

Il soggetto indeterminato (“on” in francese) porta comunemente il verbo al pl. quando una pluralità è virtualmente presente; altrimenti, al sg.: il poeta sa, senza bisogno di esprimerlo, di quale individuo parla, mecenate, prete, ṛṣi.

Il caso di un verbo al sg., essendo il soggetto pl., si incontra (eccezionalmente è vero) in mā́ nas tārīt… rā́yo aryáḥ VI 47 9 “che le ricchezze del concorrente non superino le nostre!”. In caso di più soggetti, l’accordo per contiguità è normale.

Al contrario, verbo pl. con soggetto sg., sánti káṇveṣu vo dúvaḥ I 37 14 “avete presso i Kaṇva (segni di) omaggio” (ma dúvaḥ sarebbe stato inteso come pl. di dū-?). Forse si deve vedere una autentica sopravvivenza in dhīyate dhánā (normalizzato in dhánam SS.) I 81 3 “i guadagni sono messi in gioco” (soggetto al pl. nt., verbo al sg.); allo stesso modo I 63 9ab, 162 8d VII 21 6b.

Poiché il nt. partecipa in modo incompleto all’espressione del pl., troviamo occasionalmente un nt. sg. accostato a un nt. pl., tipo ū́dhar divyā́ni “le mammelle celesti” (dove si tratta, è vero, di una finale indifferenziata in -ar); in máhi várcāṃsi AS. IV 22 3 e analoghi “grandi prestigi”, si deve tenere conto della possibilità per i nt. pl. in -ā -ī -ū di mantenere la finale breve, cfr. 250 273. Senza dubbio si ha un accordo di numero incompleto in víśvā vṛtrám amitríyā VI 17 4 “tutte le (forme dell’) ostilità”. A volte infine un epiteto di un nt. pl. è stato riadattato al m. pl.: váyāṃsI... bṛhatáḥ III 3 7 dhánānI... śáśvataḥ X 48 1. Il caso di triṣv ā́ rocané viene spiegato in 105; e l’assemblaggio di stuṣé e di un participio pl., con l’indecisione di significato propria di stuṣé 316.

396. Accordo di genere. - L’accordo di un epiteto con due o più nomi di genere diverso è generalmente risolto per contiguità; se necessario, tramite la ripetizione dell’epiteto (AS. XIX 9 1-2) o con l’uso di un nt. collettivo (in caso di nomi inanimati), evā́ hy àsya kā́myā stóma uktháṃ ca śámsyā I 8 10 “i suoi due favoriti sono da recitare, stoma e uktha”. Così tā́ pl. nt. riprende un’enumerazione I 162 14d VI 2 11 d, 4 8c. Nt. e m. (sg.) con predicato nominale al nt. du. AS. X 715b

L’attrazione di genere gioca in alcune apposizioni, fino a creare una parola dhenú nt. VI 66 1, una parola manā́ f. VS. IV 19. Un caso complesso è savitúr dvā́ upásthā I 35 6 “due (cieli, f.) sono il soggiorno di Savitṛ”, dove il nome di numero è attratto al m. (duale) a causa del m. che segue, a sua volta attratto al duale a causa del nome di numero. Altro tipo di attrazione: apā́d eti prathamā́ padvátīnām I 152 3 “lei va senza piedi, lei il primo degli esseri forniti di piedi”.

L’indeterminatezza della flessione nt. porta all’adozione di una desinenza masch. in paribhū́ḥ I 91 19 (accanto a víśvā nt. pl.) o dūráādhīḥ VI 9 6 riferendosi a mánas, visarmā́ṇam (vittám) V 42 9 anarvā́ṇam (śárdhas) I 37 1 e altri esempi 237 n. 2.

A causa di una certa indifferenza alla distinzione di genere, si può avere (in pronomi) svá- (m.) riferito qua e là a un nome femm., simá- allo stesso modo I 115 4; isolatamente návyasīnām V 53 10, 58 1 riferito a un m., come śipríṇīnām I 30 11 o rúśadbhis tanū́bhih IV 51 9. Accordo “ad sensum” yáḥ… tásmai jyeṣṭhā́ya bráhmaṇe (nt.) námaḥ AS. X 8 1.

397. Altri fatti di accordo e correlati. - Salvo anacoluto, ellissi e simili, non c’è normalmente disaccordo casuale tra sostantivo ed epiteto: la formula mahó rāyé “per la ricchezza potente” richiede una spiegazione per sé stessa (mahás prob. avverbiale).

Si verifica che un epiteto di un V. figuri al N., il che riflette semplicemente il desiderio di evitare sequenze di V., così indra vṛtrahann ugráḥ AS. V 8 9 “o Indra Vṛtrahan (tu che sei) potente”. Più interessante è, in casi dove ci si aspetta due sostantivi al V., il raddrizzamento del secondo al N. (il verbo essendo mantenuto alla 2ª pers. du.), cfr. 167 n.; un altro esempio del fenomeno è vā́yav índras ca cetathaḥ I 2 5 “o Vâyu, voi sapete e anche Indra”.

Verbo al du. con due soggetti di cui il secondo solo è espresso (e coordinato al primo, che è omesso) ā́ yád indraś ca dádvahe VIII 34 16 “quando (io) e Indra riceviamo”. È un risultato del giro precedente.

In caso di soggetti che rappresentano persone diverse dal verbo, questo può mantenersi alla 3ª pers., amī́ ca yé maghávāno vayáṃ ca… áti níṣ ṭatanyuḥ I 141 13 “possano questi benefattori e noi stessi estenderci oltre!”

398. Sostantivo e aggettivo. - Il passaggio, estremamente frequente, da una all’altra categoria, è facilitato dalle condizioni generali della derivazione nominale, che ignora la separazione netta tra sostantivo e aggettivo.

D’altra parte, lo stile vedico si adatta a una notevole indecisione su questo punto, che abbia o meno origine in doppie possibilità preistoriche. La sostantivazione degli aggettivi avviene, sia tramite il passaggio al nt. (meno frequente nei bahuvrīhi dove la funzione aggettivale è essenziale 179 fine.), come fatto normale di lingua; sia per condensazione su un epiteto del ricordo di un sostantivo usuale, come fatto di stile (da un caso banale come mahī́ o pṛthvī́ differenziato in pṛthivī́, per significare “terra”, fino a un caso più raro come sthiréva dhánvanaḥ X 116 6 “come la tensione dell’arco”): cfr. 461.

Inversamente, di due sostantivi apposti, uno, meno resistente, viene aggettivato (reçoit la motion adjective), così tápus- “bruciante” vápus- “meraviglioso”; nella categoria in -ti-, l’aggettivazione è almeno in gran parte secondaria, cfr. ūtí- abhímāti- citati 204, abhímāti sáhaḥ V 23 4 “violenza (consistente in) insidie” (analogo I 118 9c IV 21 1 d, 41 4d X 76 2c). Uno spostamento (motion) totale, di numero e genere, è acquisito partendo da un astratto in bhāgadhéyī(i) stha YV. “voi (acque, f. pl.) siete una parte”.

Mascolinizzazione (al V. sg.) di nomi in -tā-: dévata (secondo la testimonianza dei grammatici), sū́nṛta (e -te) 222 n. 2 e altri ibid.

Il pensiero vedico si basa su molti impieghi di nomi d’azione, talvolta di astratti, vivificati in nomi di agente: cfr. per i nomi-radice la nota 193 iniz.

Impiego prolettico dell’aggettivo: anarvā́nam tám pári pātaḥ I 136 5 “lo proteggono in modo che sia al riparo dal pericolo” dṛ́tiṃ sú karṣa víṣitaṃ nyàñcam V 83 7 “tira l’otre in modo che si sleghi, che (si svuoti) da sotto!”. Analogamente III 24 5c.

399. Impiego dei pronomi. - Il pronome personale nel caso soggetto è (in linea di principio) espressivo ed enfatico; tuttavia ahám è anche usato come una sorta di enclitico. Negli altri casi, il pronome è “normale”, in opposizione alle forme atone, che sono “deboli”; ma la differenza di valore è spesso impercettibile (cfr. la giustapposizione te… táva I 24 5 me / máyi TS. 16 5c e spesso). Gli enclitici non sono così smorzati da non poter essere coordinati o apposti a sostantivi, proprio come le forme piene, o servire da antecedenti a una relativa: entrambi lo fanno in naḥ… sūríbhyaḥ… yéṣām VI 68 7. Possono figurare anche all’inizio di frase quando quest’inizio non corrisponde a un inizio di pāda, vétu me śṛṇávad dhávam V 14 5 “venga, ascolti il mio richiamo!”

  1. L’atono vas 281 (a volte anche nas) è molto usato come espletivo 408; ha persino talvolta l’aspetto di un N., quando si trova dopo preverbo, riferendosi a un imperativo 2ª pl., es. prá vaḥ … gāyata. L’impiego si avvicina a quello di una particella.
  2. Associazione (rara RS., più frequente da AS.) del verbo alla 1ª pers. e di ahám. Frequente, dell’imperativo alla 2ª pers. e di tvám.

Svá- funziona come aggettivo riflessivo 282 (molto rare attestazioni come sostantivo, così in ruolo di soggetto II 5 7); la sfumatura è spesso insistente, talvolta enfatica. Il sostantivo che lo accompagna può supportare un G. possessivo, dāśúṣaḥ své sadhásthe III 51 9 “nella propria dimora del devoto”.

Per quanto riguarda ātmán- (282), l’uso riflessivo è appena iniziato nella RS. (bálaṃ dádhāna ātmáni IX 113 4 “prendendo forza nel proprio sé”); sostituisce nei mantra successivi il tanū́ - della RS. antica. Il doppione tmán è limitato (come riflessivo debole) a poche formule come nas tmáne tokā́ya VII 62 6 “a noi stessi e alla nostra progenie”.

400. Nell’ordine dei dimostrativi, il pronome fondamentale è tá-. È frequentemente usato (sebbene non necessariamente) come correlativo di yá-, sia in protasi che in apodosi (a volte, come ogni sostantivo antecedente, è ripetuto accanto al relativo, sá ghā yáḥ… / sá… III 10 3; analogo VS. XXI 61).

Più spesso tá-, in particolare al N. (), si riferisce a un oggetto precedentemente nominato o supposto conosciuto: tváṃ vā́jasya śrútyasya rājasi sá no mṛḷa 1 36 12 “tu comandi un bottino glorioso, in quanto tale sii favorevole a noi!”. Da qui le frequenti giunzioni sá tvám, táṃ tvā (sò ’hám più raro, ma si ha tám mā, ecc.; anche séyám e analoghi) “tu di cui si parla, legge che si conosce, che è tale come si è detto”; vayáṃ té “noi altri”, ecc.; tá- all’inizio di strofa a volte equivale a una particella. La posizione normale è all’inizio, tranne che in una frase negativa.

  1. Tá- riprende un’enumerazione X 49 8d, 124 4c; sostituisce il soggetto quando il verbo non è ripetuto, sá rāyé I a 3 “che lui (ci assista anche) per la ricchezza!”, táṃ rāyé táṃ suvī́rye I 10 6.
  2. Attrazione di genere e numero dal predicato nominale, nelle frasi del tipo māyét sā́ te yā́ni yuddhā́ny āhúḥ X 54 2 “ciò che chiamiamo combattimenti, è (l’effetto) della tua potenza magica”. Più audacemente, stríyaḥ tā́n… puṃsá āhuḥ I -164 16 “loro che sono donne, si dicono uomini” o sá pitā́ sá putráḥ I 89 10 “lei (Aditi) è il padre, lei è il figlio”.

Etá-, che non ha un uso correlativo preciso, accentua il valore di tá- come riferimento a una cosa conosciuta, presente nella mente, insistendo sull’aspetto “prossimo” di tale cosa: eṣá stómaḥ (a fine inno) “la lode che è appena stata compiuta”. In AS. XI 3 3249 citato 428, etám “questo (piatto)” di cui si parla si contrappone a enam, che designa lo stesso oggetto semplice anaforico.

401. Ayám è più nettamente deittico (“questo, qui presente”), indicando un oggetto come vicino, preferibilmente un oggetto di cui si sta per parlare, come imā́m V 85 5. In questo senso il termine si contrappone a asaú che indica l’oggetto come lontano o assente (tuttavia l’opposizione esplicita ayám / asaú non è frequente, X 159 1 AS. I 29 5). Ayám è usato volentieri per la persona che parla (= ahám V 40 7 VIII 100 1), asaú per le cose dell’altro mondo, come amī́ṣām AS. XII 2 55 dei morti; inoltre, dall’AS., di qualcuno il cui nome non è altrimenti designato (“un tale”). Le forme oblique di ayám funzionano anche come atone (quindi: escluse dalla posizione iniziale) quando sono anaforiche o correlate (deboli) a yá- (dhī́rā tv àsya mahinā́ janū́ṃṣi ví yás tastámbha ródasī cid urvī́ VII 86 1 “ferme sono le generazioni [umane] per la potenza di colui che ha separato, sostenendoli, i due vasti mondi”), mentre le forme toniche corrispondenti conservano un valore deittico (átāriṣma támasas pārám asyá I 92 6 “abbiamo superato la traversata di queste tenebre”). Praticamente, l’uso dell’atono va con la funzione sostantiva (asya jánimāni “le nascite di [Agni, di cui si è parlato]”), l’uso tonico con il ruolo aggettivo (asyā́ uṣásaḥ “di quest’alba [che ecco]”), ma si hanno tracce di atonia anche in questo ruolo.

  1. Ena- (atono 286) è una variante delle forme deboli di ayám, nell’uso anaforico (sostantivo).
  2. Asya (e analoghi) anaforico di un tásya precedente X 88 2, 931.
  3. Asya (e analoghi) come riflessivo I 113 2, 152 3 IV 17 12 V 30 10 e passim. La notazione grammaticale del riflessivo è instabile.

402. Caso vocativo e nominativo. - Ci sono diversi esempi; a) V. predicato, anche in frasi contenenti un N. apposto: àbhūr éko rayipate rayīṇā́m VI 31 1 “tu sei l’unico signore delle ricchezze”; analogo VIII 61 14; b) Di V. del termine a confronto I 30 21, 57 3 X 178 2. D’altra parte è stato notato in 167 n. la riviviscenza di un V. sotto forma di N. coordinato (nei dvandva a membri separati); sotto forma di N. apposto (epiteto), agne mandráḥ III 1 17.

Il N. è il caso del soggetto, e delle parole associate al soggetto, predicato incluso.

Esiste un N. predicato là dove ci si aspetterebbe l’Ac.: dadír yó nā́ma pátyate II 37 2 “colui che possiede il nome di donatore”; analogo X 28 12d e rūpám cakre vánaspatiḥ paipp. ad AS. I 24 1 “egli prese la forma di un albero”: è un modo per mettere in evidenza la parola.

Il N. predicato è di ampio uso: lo si trova tra gli altri con vidāná- (vidé) “(essere) conosciuto per”, śrutá- śuśruvé, ecc.; bruvāṇá- III 59 1 “chiamato (tale, cioè mitrá-)”.

403. Accusativo. - L’accusativo denota principalmente l’oggetto dei verbi transitivi.

a) Molti verbi intransitivi diventano transitivi, sia attraverso lo sviluppo di desinenze attive (várdhati “accrescere” di fronte a várdhate “crescere”), sia a favore di un cambiamento di accezione (DĪ- “brillare”, da cui “dare [come il sole dà i suoi raggi]”).

L’intransitività non è una funzione, ma un aspetto; rari sono i verbi che in qualche momento non possono avere un regime transitivo. Un apparente intransitivo come asṛjat I 80 10 si spiega immediatamente se si avvicina asṛjad vi síndhūn IV 18 7, 19 8, da cui deriva la formula mutilata.

b) Ci sono casi frequenti di transitivizzazione tramite il preverbo, cfr. 376 sqq.: così vratám upakṣiyántaḥ III 59 3 “conformandosi alle leggi” di fronte a vraté kṣeti I 83 3. Caso estremo: cakrado vṛ́ṣā sáṃ gā́ḥ IX 64 3 “raduna muggendo le mucche, tu che sei un toro”. Verbi come BHĀ- e RUC-, o anche STHĀ- o ĀS-, sono facilmente resi transitivi in questo modo.

c) Può infine svilupparsi un oggetto contenuto nella rappresentazione verbale, tásmā (ā́po ghṛtám arṣanti I 125 5 “per lui le acque scorrono (una colata fatta di) burro fuso”, áchidram pāntu śaraṇám 113 8 “che essi (ci) proteggano, (da) un soccorso senza falla!” Così si accredita “la figura etimologica”, dove normalmente il nome-regime è accompagnato da una determinazione: samānám añjy àñjate VII 57 3 “si ornano (di) un ornamento comune”; o (con intervento di b) aindrī́m āvrtam anvā́varte TS. I 6 6 f “faccio il percorso di Indra” (in pradakṣiṇa). Ma l’uso di questo Ac. va oltre il quadro della “figura”; ogni verbo intransitivo può generare un regime “interno” appropriato al suo senso, prá va éko mimaya bhū́ry ā́gah II 29 5 “io da solo ho quasi (in modo da commettere) molti errori”; così i regimi rayím, nṛmṇám, tokám (e anche paśūnā́m rūpám TS. I 6 4 t) di un verbo come PUṢ-.

  1. Più audace (e certamente secondo a) rayiṃ jāgṛvā́ṃsaḥ VI 1 3 “raggiungendo la ricchezza vegliando”.
  2. L’Ac. interno apposto a un Ac. ordinario, yác ca ghāsíṃ jaghā́sa I 162 14 “e ciò che ha mangiato (in fatto di) cibo”.
  3. Inizi del giro post-mantrico (bṛ́haspátiṃ yáḥ súbhṛtam bíbhárti IV 50 7 “(chi) sostiene come si deve (Bṛhaspati)”).

Mal distinto in parte dall’Ac. regime è l’Ac. di scopo, che segnala principalmente che il risultato del movimento indicato dal verbo è raggiunto (e non solo mirato): in particolare con GAM-. In caso di preverbo, si può esitare tra questa funzione, che deriva direttamente dalla forza “preposizionale” del preverbo, e la funzione transitivante: la prima vale in generale quando c’è un preverbo tonico seguito da un altro preverbo contiguo.

In generale, l’Ac. guadagna terreno: cfr. la sua intrusione accanto al G. in RĀJ- (dopo preverbo), ĪŚ- e verbi di senso analogo; nella stessa frase si trovano Ac. e G.: yád indra yā́vatas tvám etā́vad akám ī́śīya VII 32 18 “se avessi tanto potere quanto tu hai, o Indra!”

Qui e là si ha il mantenimento di un Ac. (della cosa) nell’espressione passiva, ná párā jigya id dhánam X 48 5 “non ho mai subito la perdita di una ricchezza”; prob. śraddádhāna ójaḥ I 403 3 “al quale si confida (nella) sua forza”, mathyámānaḥ sáho mahát V 11 6 “frullato (con) grande vigore”.

404. Oltre ai verbi (e alle forme impersonali dei verbi), l’accusativo accompagna una certa quantità di nomi d’agente: in particolare quelli formati su basi verbali “derivate” (ad esempio con suffisso -u- 191 203) e quelli con preverbo (in particolare i nomi-radice); ma anche altri, più o meno frequentemente, come i derivati primari in -i- (su base raddoppiata) 203, in -ani- 192 n. fin., in -tṛ- (con tono radicale) 210, in -yas (e -iṣṭha-) 213, in -snu- 212, in -ín- 225 n. 1; incidentalmente, uno o l’altro.

  1. L’accusativo con jisṇú- AS. XI 9 18 è indotto dal contesto. - Con i nomi in -uka- 230 n. 1, l’uso dell’accusativo inizia nell’AS. - Con i nomi di direzione in -añc- 195, l’accusativo è quello di fine.
  2. Eccezionalmente, si è creduto di riconoscere un accusativo come regime di nomi d’azione (muniti di preverbo) páriṣṭir dyaúr ná bhū́ma I 65 3 “come il cielo circonda la terra” dhā́ma ná práyuktiḥ I 153 2 “come stimolo all’opera”: interpretazioni dubbie.

Questo è il residuo di un uso considerevole che è conservato nel tatpuruṣa “verbale” 173 (isolatamente in bahuvrīhi 180 n.).

Sull’accusativo regime di preposizioni, vedi 376 sqq. 384: anche qui l’accusativo ha invaso il campo di altri casi, per significare valori molto liberi, che si ritrovano anche negli usi avverbiali 385.

Un accusativo doppio è attestato in vari modi: cioè, accanto all’accusativo normale, come accusativo di movimento; come accusativo predicato; come accusativo risultante dal preverbo (ā́ no gotrā́ dardṛhi gopate gā́ḥ III 30 21 “o maestro delle vacche, rompi per noi i recinti [in modo da portare] le vacche!”); come accusativo regime della forza fattitiva inclusa nel presente in -áya- (raro) (uśán devā́m̐ uśatáḥ pāyayā havíḥ II 37 6 “di tua spontanea volontà fai bere l’oblazione [agli] dei [che agiscono loro stessi] di loro spontanea volontà!”); analogo VIII 1 17 AS. IV 15 3, 20 6 VS. IX 11). Ma il caso più interessante è la coesistenza di due accusativi di oggetto diretto, quello della persona e quello della cosa, con i verbi dire (VAC-), chiedere (PṚŚ-), mungere (DUH-) e alcuni altri riconducibili per senso alle prime due categorie; talvolta oltre questi limiti, yáḥ… tvā́m ā́gáṃsi kṛṇávat VII 88 6 “colui che commette errori nei tuoi confronti”; altro es. con KṚ- V 30 9.

Infine, un accusativo di durata o di estensione nello spazio appare in locuzioni per lo più semi-avverbiali, come kṣápo bhāsI... saṃyátaḥ II 2 2 “brilli (durante) le notti successive” (ibid. náktīr uṣásaḥ e mā́nuṣā yugā́); yo ’dhvanaḥ sadyá éti I 71 9 “(il sole) che in un giorno percorre il suo cammino”. Più audacemente, sáṃgatiṃ góḥ IV 44 1 “all’ora in cui le vacche si radunano”; analogo V 1 11 VI 9 1 IX 22 4.

  1. Ma l’Ac. mánas in máno jáviṣṭham VI 9 5 “rapido al massimo, (come) il pensiero” risulta dalla dislocazione del composto manojū́-.
  2. L’accusativo di “concernement (funzione, ruolo?)” non deriva da espressioni avverbiali come nā́ma 385 o da enunciati pronominali come etát tát TS. III 3 8 b “in relazione a ciò”.

405. Strumentale. - Lo strumentale indica qualsiasi oggetto mediante il quale si realizza l’azione: sia che si tratti di uno strumento materiale, áhan vṛtrám índro vájreṇa I 32 5 “Indra uccise Vṛtra mediante il fulmine”; più liberamente, árvatā “a cavallo” e analoghi:

di un motivo, della ragione di un atto, bhiyā́ “per paura”, kā́mena “per desiderio” (uso riservato a espressioni avverbiali, senza epiteto né regime);

di un semplice accompagnamento (persona accompagnante, cosa concomitante), devó devébhir ā́ gamat I 1 5 “che il dio venga con i dei!” (questo senso essendo spesso specificato da una preposizione, ma non necessariamente);

più generalmente, “modo”: váhnir āsā́ I 76 4 “colui che conduce (l’offerta) attraverso la bocca”: anche qui le locuzioni avverbiali sono numerose, ójasā e analoghi “con forza”, ūtī́ (ūtíbhis) “con aiuto, grazie a (il suo) aiuto”; ójasā, ecc. giocano esattamente lo stesso ruolo di vájrena nella formula áhan vṛtrám sopra citata.

I verbi reggenti esprimono il fatto di essere associato con (o, al contrario, separato da, TS. I 2 3 g ví-RĀDH-), godere di; riempire di; onorare (una divinità) con (un’offerta); la costruzione può variare per lo stesso verbo. Si ha isolatamente pátyate vasavyaìh. VI 13 4 “egli è il maestro di ricchezze”, l’idea essendo “disporre abbondantemente di”.

Come nell’accusativo, il regime “interno” è frequente, sudītī́… didīhi VII 1 21 “brilla di una bella luce”, yā́bhih (ūtíbhiḥ)… ā́vatam I 112 passim “gli aiuti con i quali avete aiutato”. Allo stesso modo per l’I. regime di nomi, sudákṣo dákṣaiḥ… kavíḥ kā́vyena X 91 3 “abile in abilità, veggente in visione”.

Si può delimitare all’interno dello strumentale di mezzo uno strumentale di prezzo, di scambio, bhū́yasā vasnám acarat kánīyaḥ IV 24 9 “ha fatto un’offerta troppo piccola per qualcosa di (più) importante”; analogo TS. I 2 7a.

406. Come si vede dai fatti citati, il legame dello strumentale con il verbo è spesso debole, persino abolito. Diversi degli usi menzionati si riducono a uno strumentale che indica l’elemento che serve a caratterizzare: góbhir ádrim I 7 3 “la roccia delle vacche”, più esplicitamente vícetasam páṣyanto dyā́m iva stṛ́bhiḥ IV 7 3 “riconoscendo l’essere intelligente come (si riconosce) il cielo alle stelle”. Qui appartiene lo strumentale “descrittivo”, ví var uṣásā sū́ryeṇa góbhir ándhaḥ I 62 5 “hai scoperto le tenebre così come l’aurora, il sole, le vacche”. D’altra parte, lo strumentale “sociativo” a volte si risolve in uno strumentale di paragone, só áṅgirobhir áṅgirastamo bhūt I 100 4 “egli è con gli Aṅgiras l’Aṅgiras per eccellenza” (da cui: “paragonato agli Aṅgiras”); la formula che segue in questo passaggio, gātúbhir jyéṣṭhaḥ “rispetto agli altri percorsi, è il migliore” conferma la presenza della nozione comparativa, peraltro rara; X 76 5 lo strumentale si avvicina al genitivo, diváś cid ā́ vó ’mavattarebhyo vibhvánā cid āśvàpastarebhyaḥ “siete più potenti del cielo, più rapidi nell’azione di Vibhvan”.

407. Lo strumentale, come altri casi staccandosi dall’impiego verbale, assume un valore locale e temporale, indicando un’estensione, un percorso o una durata concepiti come “mezzi”, rā́trībhir asmā áhabhir daśasyet X 10 9 “grazie alle notti, ai giorni lei lo adorerebbe”. Da qui derivano usi avverbiali 386 e, per interferenza con lo strumentale descrittivo: dyā́vo ’habhiḥ I 151 9 “i giorni così come le giornate”. Un uso vicino è quello illustrato dalla formula yudhā́ yú dharn I 53 7 e purā́ púram ibid. “combattimento dopo combattimento” e “fortezza dopo fortezza”.

Con le forme passive del verbo, personali o no, il nome dell’agente è allo strumentale, uṣā́ uchántī ribhyate vásiṣṭhaiḥ VII 76 7 “l’Aurora quando splende è cantata dai Vasiṣṭha”, ma questo uso non è frequente; si trova piuttosto con i verbalizzati in -tá- che con il passivo personale, e piuttosto nei mantra recenti che in quelli della RS. antica. Con alcune categorie di nomi di obbligo, così daksā́yya indra… nṝ́bhir ási I 129 2 “devi essere sfruttato (per la lotta) dagli uomini”; anche con l’infinito D., ripúṇā nā́vacákṣe IV 58 5 “da non essere visto dall’astuto”.

Lo strumentale viene evitato con le preposizioni propriamente dette, cfr. comunque 376 377; si trova invece come regime degli avverbi “sociativi” 384.

408. Dativo. — Il dativo è principalmente un sistema di verbi: a) sia di verbi che hanno un complemento oggetto e che esprimono l’attribuzione di tale oggetto a una certa persona: tipo i verbi “dare” (da cui derivano “portare”, “sacrificare”, o semplicemente “dire”) e molte espressioni, provenienti da aree semantiche diverse, che finiscono per significare “dare”, come yé stotṛ́bhyaḥ… rātím upasṛjánti II 1 16 “quelli che elargiscono i loro doni ai cantori”, máhi stotṛ́bhyaḥ… suvī́ryam máthīḥ, I 127 11 “dai ai tuoi cantori una grande ricchezza in eroi!”, yuṣmábhyaṃ havyā́ níśitāni I 171 4 “per voi le oblazioni erano state affilate” (= le avevamo preparate per voi come dono);

b) Sia di verbi che non hanno altri complementi e che esprimono le nozioni di “aiutare”, “rendere omaggio”, “avere fiducia”, ecc.; o sono verbi affettivi, come “essere irritato”, “piacere a”, ecc.

Esiste quello che può essere chiamato una transitivizzazione tramite il D., dopo un verbo con prefisso (in particolare ánu): kásmai sasruḥ sudā́se ánv āpáyaḥ. V 53 2 “quale benefattore cercavano correndo, loro, i nostri alleati?” Ma questo è solo un aspetto secondario del D. nel suo ruolo principale, che è quello di designare la persona a cui è rivolta l’azione, a beneficio della quale l’azione avviene: devā́n devayaté yaja I 15 12 “onora gli dei (con un sacrificio) a favore di colui che ama gli dei!”, índra túbhyam íD... abhūma VI 44 10 “siamo (fatti) per te, o Indra”.

Il fatto che la persona “interessata” sia spesso indicata al D. porta alla presenza di questo caso come regime di certi passivi, almeno in formazioni nominali, yáḥ stotṛ́bhyo hávyo ásti I 33 2 “colui che è da invocare per i (= dai) cantori”; negli infiniti D., il D. di regime sostituisce l’Ac. per attrazione 420.

  1. Da ciò deriva l’uso che ci appare pleonastico (D. “etico”), attestato in particolare con il pronome enclitico vas 399 n. 1, agním-agniṃ vaḥ samídhā duvasyata VI15 6 “rendete omaggio attraverso il fuoco acceso a ogni Agni!” (e due altre volte nella stessa strofa).
  2. Il D. di “concernement (funzione, ruolo?)” si è anche stabilito come complemento di alcuni aggettivi (“buono per, pronto a”, ecc.), di avverbi (áram “in buone condizioni per”), e persino di interiezioni (svā́hā YV., śám RS. YV.).

409. Il D. appare anche per nomi di cose, quando si tratta di designare lo scopo per cui l’azione avviene. Questo D. è particolarmente frequente e libero negli yajus, dove si incontrano formule come ā́yuṣe dhām TS. I 1 6 “possa io disporre (il sacrificante) per una (lunga) durata di vita !” o ellitticamente iṣé tvā YV. (parallelamente, con n. di persona, a índrāya tvā). È in questione soprattutto il D. (sg.) dei nomi d’azione in -i- -ti- -as-, ūtáye “per l’aiuto” (ávase id.), śriyé “per la bellezza”, śrávase “per la gloria”; eventualmente astratti in -trá- (MS. I 4 4 : 52 1-4) -tāt(i)- -tva(na)-. È da questa categoria semantica che derivano gli infiniti di scopo, che si presentano proprio più di una volta mescolati al D. “nominali” dello stesso senso, vedi la sequenza composita cáritave… iṣṭáye… vicákṣe… kṣatrā́ya…śrávase, ecc. I 113 5-6.

  1. Come negli infiniti 420 c’è un D. di attrazione, tásya bhármaṇe bhúvanāya… dhármaṇe X 88 4 “perché possa portare, sostenere il mondo” (queste forme in -mane sono, è vero, semi-infinitive), átho ha brahmábhyo vaśā́ yācñyā́ya kṛṇute mánaḥ AS. XII 4 30 “allora la mucca si prepara a essere richiesta dai sacerdoti”.
  2. Sulla posizione di questo D. “finale” in estensione di frase, vedi 393 n. fine.
  3. Sulla sostituzione del D. in -yai al G. Ab. in -yās, vedi 236.

Un D. temporale si è sviluppato in alcune formule più o meno fisse, come aparā́ya citato 387 e analoghi ibid. Ma il D. in divé-dive “giorno dopo giorno” si è sostituito per ragioni ritmiche al L. *diví-divi.

410. Ablativo. — L’ablativo indica il punto di partenza, con tutte le conseguenze dirette o figurate che questo concetto comporta. Tra gli altri, l’uso con verbi come “scacciare, impedire, proteggere, temere” (e con i sostantivi equivalenti), per designare l’oggetto da cui si allontana qualcuno, da cui si scaccia qualcuno, da cui ci si allontana per paura. Un doppio Ab., per attrazione (uno dei due essendo un semi-infinito 421), figura in indrasya vájrād abibhed abhiśnáthaḥ X 138 5 “temeva il fulmine di Indra, di essere schiacciata (da lui)”. In uruṣyáti (360) c’è la sovrapposizione di due costruzioni, “proteggere qualcuno da qualcosa” e “allontanare qualcosa da qualcuno o da sé stessi, prendere il largo”. Con il sostantivo bhī́- “paura”, il G. (normale come regime di nomi) si sostituisce all’Ab., l’unico usato per il verbo corrispondente. Per la nozione “separare da”, c’è una competizione dell’I., sotto l’influenza della nozione inversa “associare a”.

Un uso notevole dell’Ab. è quello della “comparazione”, in libera connessione con il processo, sómāt sutā́d índro ‘vṛṇītā vásiṣṭhān VU 33 2 “Indra preferiva (quello dei) Vasiṣṭha al soma spremuto (da altri)”; o più spesso, in dipendenza da un aggettivo, a forma o a valore comparativo, viśvasmād indra úttaraḥ X 86 1 “Indra è superiore a tutti (gli altri)”; così con anyá-, vṛṇate nā́nyám tvát X 91 8 “non si sceglie nessun altro che te”.

  1. L’influenza di questo Ab. determina la costruzione insolita náktaṃ yáḥ sudárśataro divātarāt I 1 27 5 “chi di notte è più bello a vedersi che di giorno”, dove un suffisso “comparativo” si è istituito per portare la desinenza.
  2. Qui e là, questo Ab. è usato più liberamente, senza una parola che lo regge: yé nṛ́tamāso aryá índra sūráyo dadhiré puró naḥ VI 25 7 “loro, i nobili padroni che, o Indra, ci hanno messo al posto d’onore in confronto con (il posto che riservano) allo straniero”.
  3. Ab. regime di alcuni avverbi 384 o della preposizione a 378.

Infine, un Ab. appare liberamente in frase verbale, per esprimere la ragione di essere di un’azione, il movente, la causa (concepita come “punto di partenza”), mā́ nas tásmād énaso deva rīriṣaḥ VU 89 5 “non farci del male, o dio, per quella colpa!”

411. Genitivo. — A differenza degli altri casi, il genitivo è essenzialmente adnominale. Tuttavia, è anche ampiamente usato con verbi come “essere padrone di”, “godere di” e alcuni verbi che esprimono una percezione intellettuale, come VID- 1 BUDH- “accorgersi” (ma non JÑĀ-); con ŚRU- nel senso di “ascoltare, dare udienza a” (anche se il frequente nas è ambiguo e l’Ac. è qui come altrove più usuale). Cf. vidyā́ma vástoḥ I 177 5 “possiamo conoscere la luce (del nuovo giorno)!”, prob. bodhy ā̀pír ávaso nū́tanasya III 51 6 “pensa, come alleato, all’aiuto attuale!” (incerto bodhy āpéḥ X 83 6 “mostrati un alleato!”, cf. sakhyásya bodhi naḥ VIII 44 22 “manifesta la tua alleanza a nostro favore!”).

Altrove, l’uso avverbiale è di natura positiva, almeno in linea di principio. Si nota con i verbi “mangiare, bere”, “dare, fare offerta”, “avere parte a”, “chiedere”, sómasya nú tvā súṣutasya yakṣi III 53 2 “voglio onorarti (con un sacrificio fatto) di soma ben spremuto”, ubháyasya naḥ piba śúciṃ sómaṃ gávāśiram VIII 101 10 “bevi entrambi i tipi del nostro soma, puro e miscelato con latte!” (G. e Ac. contigui), bhágasya no dhehi AS. XIX 4 3 “conferiscici (una parte) di felicità!”; G. con nír-VAP- TS. 11 10 i.

  1. Il G. “partitivo” può essere di tipo “interno”, ubháyasya puṣyataḥ X 13 5 “possiedono (una parte) dell’una e dell’altra prosperità”.
  2. Doppio G., della persona e della cosa, kuvín me vásvo amṛ́tasya śikṣāḥ III 43 5 “non mi gratificherai di un bene immortale?”

Un altro G. di apparenza avverbiale è il G. possessivo che si attacca a AS- 1 e BHŪ-, asmā́kam astu kévalaḥ I 7 10 “sia esclusivamente nostro!” In realtà, si tratta di un G. adnominale libero.

412. Il G. di regime di nomi figura prima di tutto con nomi di azione dove è la controparte del N. soggetto o dell’Ac. regime diretto dei verbi corrispondenti. I valori sono quindi a volte quello del G. soggettivo, come in uṣáso vyùṣṭau “all’apparire dell’alba”; altre volte del G. oggettivo, come in yógo vājínaḥ “l’imbragatura del cavallo da corsa”. A volte si esita (forse l’ambiguità è intrinseca alla formula) tra un valore e l’altro, come in abhímātir jánānām X 69 5 “il cattivo pensiero degli uomini”, ma I 25 14 “i complotti contro gli uomini”. Con śáṃsa- (regime devā́nām o narā́m) “lode”, il senso può essere sia “lode conferita da” sia “lode indirizzata a”, cf. 173 n. fin. L’uso abituale è quello di appartenenza, come in índrasya vájraḥ “il fulmine di Indra”. È piuttosto vano cercare ulteriori suddivisioni. Da notare tuttavia che il G. di “qualità” è raro, se non sconosciuto (forse, śūṣásya mámnabhiḥ VIII 74 l = mánma 1 154 3 “canto di ispirazione”, analogo VIII 102 16); raro anche il G. di materia, sómaḥ sutásya mádhvaḥ IX 24 7 “il soma (fatto) di dolce (bevanda) spremuto”, forse X 116 4; il G. di destinazione svádhitir vánānām IX 96 6 “un’ascia per gli alberi” (e forse 1 190 4); G. nel senso di “figlio di” VIII 1 32.

Si può isolare un G. partitivo, specialmente nelle formule con accezione superlativa, come puṣṭásya puṣṭám “la prosperità della prosperità”. Ma anche altrove: D... asyá yajñásya ríṣyāt TS. I 6 2 e “ciò che di questo sacrificio può essere danneggiato”. Bigogna confrontare il G. regime dei comparativi, dei superlativi e di tutte le altre relazioni che implicano un grado,, tavástamas tavásām Il 33 3 “il più forte tra i forti”, vára ā́ pṛthivyā́ḥ III 53 11 “il miglior (punto) della terra”, vasantám ṛtūnā́m TS. I 6 21 “la primavera tra le stagioni”. Il G. esplicativo del giro gópatir gónām 457 è in parte partitivo, in parte possessivo.

Con i nomi d’agente si ha un G. “oggettivo” frequente (vibhā́vosráḥ I 69 9 “che illumina l’alba”), concorrendo tuttavia in certe serie con l’Ac, 404 : cf. 210 la differenza tra il nome in -tr- a regime G., indicante la funzione, e lo stesso a regime Ac., indicante il compimento dell’atto.

413. I nomi in -tá- hanno come regime d’agente il G., máméd vardhasva súṣṭutaḥ VIII 6 12 “cresci (per il fatto che sei) ben lodato da me!”. Allo stesso modo i verbi d’obbligo, hávyo aryáḥ I 116 6 “che deve essere invocato dall’uomo del clan”; ma questo tipo di regime è poco frequente, almeno nella RS.

Infine, il G. adnominale è regime di diversi aggettivi che corrispondono in parte ai verbi con lo stesso regime; di avverbi a senso locale, temporale, eventualmente sociativo 384 o moltiplicativo (formule trír áhnaḥ o aktóḥ “tre volte al giorno, di notte”, in concorrenza con trír áhan). Esiste un G. temporale libero alla base di certi avverbi 387.

  1. Non c’è un netto sovrapporsi del G. sul D. nei mantra, sebbene l’ambivalenza dei pronomi personali atoni possa aver facilmente preparato il terreno; il G. asyā(ḥ) IV 42 9c deve essere un errore redazionale; esempi incerti I 86 3a VI 23 2c VII 90 4d VIII 50 8b.
  2. Nessun ulteriore sovrapporsi del G. sull’Ab.; l’interpretazione in questo senso di trā́dhvaṃ no devā nijúro vṛ́kasya II 29 6 “proteggeteci, o dèi, dal lupo, dall’essere distrutti (da lui)” rimane dubbia; così anche III 7 la IX 61 30c. Qui l’avverbio sarebbe, come più di una volta, in anticipo sulla sintassi del nome (G. regime di erté, ṛté 384).
  3. G. ellittico nel senso di “a casa di”, táva svid ā́ I -150 1 se il senso è “nella tua (casa)”; analogo e altrettanto incerto II 1 4c AS. V. 29 4c (a metà strada yàsya… grhé AS. VII 76 5).

414. Locativo. — Il locativo indica il dominio (spaziale prima, poi temporale, figurato) dove l’azione si svolge. Si trova, spesso con una rezione molto libera, in nomi isolati (semi-avverbiali, cf. 387) o accoppiati ad epiteti descrittivi o infine dando inizio a una proposizione “circonstanziale”. In senso figurato, asya sumataú syāma VIII 48 12 “possiamo essere nei suoi pensieri favorevoli!”; così anche con un nome di persona, vayáṃ syāma váruṇe ánāgāḥ VII 87 7 “possiamo essere senza colpa presso (= agli occhi di) Varuṇa!”. “In occasione di” (evento datato) návye deṣṇé śasté ta ukthé TS. I 7 13 g “questa canto ti è stata detto in occasione del nuovo dono”. “Dopo (un certo lasso di tempo)”: saṃvatsaré 1161 13 “dopo un anno”.

Ma il L. è usato anche come regime più o meno stretto di verbi (o espressioni con senso verbale), per indicare l’oggetto (la persona) interessata dall’azione, rappresentando “il dominio” di quest’azione. Così verbi di natura diversa, movimenti fisici, movimenti dell’anima, possono essere accompagnati da un L. (“rallegrarsi di, prosperare in, invocare per, avere parte a”, ecc.), yajñé jāgṛta TS. I 3 12 d “vegliate sul sacrificio”; tra gli altri, DHĀ- significando non solo “mettere dentro”, ma anche “dare a” (in opposizione a DĀ- che governa il D.), śunám asmā́su dhattam IV 57 8 “conferiteci la prosperità!” (D. molto raro, 11 35 5). Praticamente il L. si trova dove ci si aspetterebbe spesso il D., persino il D. di destinazione, tám ít sakhitvá īmahe I 10 6 “lo invochiamo per la sua alleanza”, cákrir devéṣv ā́ dúvaḥ III 16 4 “che fa omaggio agli dei”, ā́ devéṣu yátata ā́ suvī́rye “aspira agli dei, al possesso di uomini” (ibid.).

In stuta devasya savituḥ save Vt. XVII 7 “lodate su incitamento del dio Savitṛ!” e, più audacemente, in savitúḥ sávīmani śréṣṭhe syāma VI 71 2 “possiamo essere nel (= beneficiare dell’) incitamento più bello di Savitṛ!” e yáḥ… prasavé cā́si bhū́manaḥ “lui che è (la causa) della creazione del mondo”, yát kúsīdam ápratīttam máyi TS. III 3 8b “il prestito che non è stato restituito da me” (var. máyā MS.), il L. di dominio porta a notare le modalità più diverse.

L. regime di preposizioni 376 sqq.; di alcuni avverbi 384, in particolare L. “sociativo” con sácā (contrariamente alla sintassi del verbo SAC-).

415. Caso assoluto. — Esiste un Locativo assoluto, formato da un sostantivo e un nome verbale che in una frase libera sarebbero rispettivamente soggetto e verbo. L’espressione serve a indicare il luogo (di solito, il momento) in cui si svolge l’azione, e il nome verbale è generalmente il participio presente (il participio presente passivo appare con l’AS.), in secondo luogo il verbale in -tá-. Il L. assoluto utilizza gruppi di formule (est formulaire), adattandosi a usi più o meno elementari, come uchántyām uṣási “quando l’alba illumina”, suté sóme “il soma essendo spremuto” (anche sóme sácā suté — o suté da solo, il soggetto potendo naturalmente essere omesso —) jāté agnaú “il fuoco essendo nato”, dháne hité “la posta in gioco essendo fissata”. Ma basta poco per risvegliare il senso rettivo (rectionnel), così suté sóme havāmahe è meno “il soma spremuto, ti invochiamo” che “per il soma spremuto = per lo spremitura del soma”; in totale il procedimento manca di solidità nella RS.; si svilupperà nell’AS. e nel YV.

Non esistono nei mantra altri casi “assoluti” oltre al L.: un G. come dákṣasya bibhyúsaḥ VI 23 2 “mentre ha paura, lui l’abile” non può essere considerato tale; un Ac. come uṣáso vibhātī́h AS. XIV 2 44 “(durante) le albe brillanti” si spiega come semplice Ac. temporale.

416. Un tratto generale, osservato molte volte riguardo le descrizioni dell’uso di ciascun caso particolare, è la debole specializzazione dei valori casuali. Una stessa nozione si esprime con due, talvolta tre casi distinti senza una sensibile differenza: le “varianti” intertestuali mettono in luce molti fatti di questo tipo.

Da ciò derivano le coesistenze di casi diversi come regimi di una stessa espressione, yā́vatas / etā́vat 403; anche (meno probante) ghané / sanáye VI 26 8, páñcānuvākaiḥ AS. XIX 22 1 di fronte ai D. che seguono 2 sqq., il D. mādbhyáḥ AS. XIX 27 2 di fronte agli I. che lo circondano; cf. ancora gáyasya e védaḥ, Nil 19 1, párvatam e dhármaṇām I 55 3. yajñám e adhvarā́ṇām X 46 4, dívan e pṛthivyā́ḥ VI 21 2. All’Ab. du. ci sono usi della finale -os al posto di -bhyām. Ma il D. rāyé accanto al L. yóge I 5 3 (e altri fatti analoghi) si spiega dal fatto che rāyé è sentito come L. (il L. manca nel tema raí-, come del resto nel derivato rayí).

Un’incongruenza brusca come áhan pā́ryāya IV 16 11 “per il decisivo nel giorno = per il giorno decisivo” deriva probabilmente da qualche intenzione stilistica, senza che sia necessario evocare l’arcaico “caso indefinito” in -an (altrove, in -ar); si ha allo stesso modo pā́rye dyóḥ VI 66 8 “id.”. Intenzionale anche, ma di origine oscura, l’uso di nṝ́n per nṛṇā́m 105; la presenza di finali “sincopate” (ibid.) spiega alcune anomalie. Altrove si deve ricorrere alla sintassi speciale delle proposizioni comparative, come svàr ṇá jyótiḥ 460. Infine, su sū́re duhitā́, vedi 137.

Può capitare che lo stesso nome sia regime di due parole contemporaneamente, come uṣásām di yāráḥ e upásthāt VI! 9 1 “amante delle albe” e “dal seno delle albe”; analogo VIII 46 6.

417. Frase nominale. — La frase nominale è abbastanza comune sin dai mantra antichi e appare in progressione. Il tipo più rappresentativo è l’apposizione di un sostantivo e di un aggettivo, vṛ́ṣṇi te śávaḥ V 35 4 “la tua forza è quella di un toro”; o di due sostantivi (uno dei quali può essere un pronome, in particolare tá-), agnír hótā V 9 2 “Agni è l’hotṛ”, tváṃ váruṇaḥ (passim) “tu sei Varuṇa”, sá janāsa índraḥ II 12 (ritornello) “quello, o gente, è Indra”. Ma uno dei nomi può essere anche in un caso obliquo, come nel G. possessivo, táva dyukṣā́sa índavaḥ III 40 5 “a te appartengono le gocce celesti”. Predicato consistente in un invariante, ánutvā ráthaḥ I 163 8 “il carro è dietro di te”. Da notare in particolare il giro che comporta un infinito D., 420. La frase nominale è usata nelle affermazioni di carattere generale, sentenze, definizioni, identificazioni; manca in linea di principio (anche se i mantra ne hanno esteso l’uso) dove è richiesta un’espressione particolare, temporale, modale, affettiva.

Uno dei nomi presenti è spesso un nome “verbale”, un aggettivo in -tá- o un aggettivo d’obbligo, stīrṇáṃ te barhíḥ III 35 7 “lo strato di erba sacra è steso per te”; anche qui, l’uso (cf. 429) attesta un progresso sensibile tra i mantra antichi e quelli del Libro X e ancor più dell’AS. La copula viene posta solo quando un motivo la richiede: espressione di un tempo o modo, espressione di una persona diversa dalla terza (anche se ahám e tvám suppliscono in larga misura all’indicazione di asmi e asi). Tuttavia, una copula immotivata si presenta frequentemente nei mantra (non nei yajus), predominando di gran lunga sui pochi casi in cui un’intenzione espressiva la richiede (come sánti hy àryá āśíṣaḥ VIII 54 7 “i desideri del capo clan si realizzano”).

418. Participio. — Il participio è normalmente apposto a un nome (pronome, espresso o implicito), in qualsiasi forma casuale, per introdurre una clausola temporale, concessiva, causale, ecc., o semplicemente “accompagnante”.

  1. Questo uso porta a una perdita più o meno marcata del valore verbale, e così numerosi participi funzionano come semplici aggettivi (o nomi d’agente), soprattutto quelli che non sono supportati da un preverbo o dalla presenza di una flessione personale.
  2. Sánt- implica normalmente un contrasto «pur essendo…».

L’apposizione a una parola soggetto o regime diretto può dare l’impressione che il participio equivalga a una proposizione completiva, aruṇó mā sakṛ́d vṛ́kaḥ pathā́ yántaṃ dadárśa hí I 105 18 “il lupo rosso mi ha visto una volta andando (= ha visto che andavo) per il cammino”, óṣadhīr bápsad agnír ná vāyati VIII 43 7 “Agni non si stanca di divorare le piante”; prob. forse uktháṃ caná śasyámānam ágor arír ā́ ciketa VIII 2 14 “il capo clan non si preoccupa se il povero recita (o no) l’inno”: ma è dubbio che il participio sia mai percepito come supporto di una subordinata vera e propria.

Il costrutto MAN + participio è accennata (amorcé) in mánye bhejānó amṛ́tasya AS. III 13 6 “mi sembra di avere avuto l’ambrosia da condividere (quando…)”, così come AS. XV 6 7a (prosa).

Un participio predicato (in altre parole, in funzione o apparenza di un verbo personale) è attestato in una serie di passaggi. Spesso, è vero, si deve ammettere una costruzione interrotta (anacoluta, cf. 462, ellissi), che il contesto può suggerire: così sadyó maháḥ pitúm papivā́ñ cā́rv ámnā I 61 7 “ha bevuto subito (appena nato) la bevanda del grande, il dolce cibo” (dove il pāda può essere considerato come una parentesi e papivā́n collegato a víḥdyat d); nā́nā hí tvā hávamānā jánā imé I 102 5 “infatti da ogni parte queste persone ti invocano” (frase incompiuta). Tuttavia, rimane che il participio al nominativo (soprattutto pl.) può in una certa misura e sotto certe condizioni sostituire il verbo; a volte è supportato da una copula in questo uso.

Si notano i primi tentativi di un uso perifrastico, dove si trova un participio che esprime un’azione durativa, in collegamento con I-CAR- ĀS-, come in tā́d evédáṃ tātṛpāṇā́ carāmi X 95 46 “ora ne sono ancora sazia”. Ma tale uso non ha ancora stabilità.

419. Assolutivo. — L’assolutivo indica una determinazione temporale, che generalmente (ma non necessariamente) si colloca prima del tempo indicato dal processo principale. Ecco un esempio che implica una simultaneità indiscutibile, yávamanto yávaṃ cid yáthā dā́nty anupūrváṃ viyū́ya X 131 2 “come i proprietari di orzo mietono l’orzo stando lontani gli uni dagli altri”. A volte la determinazione è modale piuttosto che temporale, portando a formule semi-avverbiali come vitū́ryā X 68 3 “vittoriosamente”, mithaspṛ́dhya “a gara, reciprocamente rivali”. L’assolutivo si riferisce al soggetto o, al limite, alla parola che effettivamente designa l’agente (X 34 11); aberrante sotto questo aspetto, come anche per il significato, vívasvantaṃ huve… barhísy ā́ niṣádya X 14 5 “invoco Vivasvant (affinché?) prenda posto sulla lettiera rituale”.

L’assolutivo gioca solo un ruolo accessorio nella frase. In nessun caso forma chiaramente un raggruppamento perifrastico con un “ausiliare”; al massimo ne è l’inizio in yé tvārábhya cárāmasi citato in 447.

  1. Un solo caso nella RS. (Libro X, ovvero 85 33; AS. XII 4 23 e 52, ecc.), di ripresa mediante átha della proposizione principale.
  2. L’assolutivo in -am, poco distinto (cf. 374 n. fine), appare con la sfumatura di “gerundio”, in yánti pramā́dam VIII 2 48 “vanno inebriandosi”, yá indra sásty avratò ’nuṣvā́pam VIII 97 3 “colui, o Indra, che dorme senza seguire le leggi (divine), di un sonno continuo”; altri esempi dopo la RS.

420. Infinito. — L’infinito sembra essere morfologicamente ben sviluppato, anche se molte forme sono difficilmente distinguibili da strutture puramente nominali. Talvolta completa liberamente una frase introducendo una proposizione finale o consecutiva, altre volte dipende da un verbo come un regime diretto; più raramente dipende da un nome; infine, occasionalmente si colloca liberamente in modo simile a una forma personale con sfumatura imperativa.

Gli infiniti con desinenza di D., i più numerosi, sono di tipo finale-consecutivo, come suggerisce la loro forma: ābhūd u pārám étave pánthāḥ X 46 11 “ecco il sentiero per andare all’altra riva”; tuttavia, molti di questi infiniti raggiungono questo senso solo attraverso la dipendenza esplicita da un verbo che indica desiderio, capacità, richiesta. L’uso passivo è frequente, almeno in proposizione negativa, ná me dūrā́d ávitave vásiṣṭhāḥ VII 33 1 “i Vasiṣṭha non possono da me essere soccorsi da lontano”, dove si noti allo stesso tempo che l’infinito funziona come predicato: questo giro è limitato all’infinito radicale o in -tave; può eventualmente comportare un regime d’agente, sia all’I. sia al G.. Sull’uso “causativo”, vedi 435.

  1. Per attrazione, il nome che in una frase personale sarebbe soggetto viene portato anch’esso al D., sū́ryāya yā́tave VIII 7 8 “affinché il sole segua il suo corso”; o più spesso, il nome-regime, áhaye hántavā́ u (passim) “per uccidere il drago”; entrambi i nomi in brahmadvíṣe śárave hántavā́ u X 125 6 “affinché la freccia uccida l’empio”.
  2. Nei mantra tardivi, l’infinito in -tavaí, seguito da íti, esprime un ordine: brāhmaṇāṃs tarpayitavai Āp. IV 46 47 “egli fa saziare i brāhmaṇa (dà l’ordine)”.
  3. Infinito D. libero in alcuni casi, kás te… bhujé mártaḥ I 30 20 “quale mortale è (in grado di) godere di te?”.

421. L’infinito Ac. in -am è regime diretto di verbi che significano “essere in grado di; desiderare; conoscere”, o di verbi di movimento (quindi, sul piano dell’Ac. nominale), yá īm ā́ devayúṃ jánam / iyétha barhír āsádam IV 9 1 “tu che sei venuto vicino all’uomo pio, a sederti sul suo giaciglio”.

L’infinito in -tum dipende anche, sia da un verbo di movimento, sia dai verbi ARH- o CIT- : ā́ devā́nām ápi pánthām aganma yác chaknávāma tád ánu právoḷhum X 2 3 “siamo venuti sul cammino degli dei per spingerci più avanti che potevamo”. Nella RS, questo infinito è poco flessibile e non governa da nessuna parte un vero e proprio Ac. di oggetto.

L’infinito in -as è un Ab. dipendente: a) dagli avverbi ṛté “senza” o purā́ nel senso di “per paura che”; b) da un verbo “proteggere” o “temere”. In un solo passaggio, è un G. regolato da ĪŚ-: nahí tvád āré nimíṣaś canéśe 11 28 6 “perché senza di te non posso nemmeno battere ciglio”.

Allo stesso modo, -tos è Ab. dopo purā́, ā́ o un verbo che significa “impedire di”; G. dopo ĪŚ- o dopo l’avverbio madhyā́. In entrambi i casi c’è un’attrazione del regime, il che significa: giustapposizione di un regime nominale e di un infinito, es. ī́śe rāyáḥ suvī́ryasya dā́toḥ VII 4 6 “ha il potere di dare ricchezza (e) abbondanza in guerrieri” (propriamente: è padrone della ricchezza, ha il potere di dar[la]).

Uso passivo in purā́ hántoḥ II 28 5 “prima di essere colpito”. Attrazione del “soggetto” in ā punar mad aitoḥ Kap. V 2 “fino al mio ritorno”.

Questi vari usi segnano una riduzione della libertà e della flessibilità rispetto agli infiniti D.

422. Rimangono degli infiniti difficili da classificare: quelli in -(s)ani hanno un valore più o meno chiaro di imperativo, priyám-priyaṃ vo átithiṃ gṛṇīṣáṇi VI 15 6 “io voglio cantare (o: cantate) il vostro ospite sempre amato”; valore liberamente finale in náyiṣṭhā. u no neṣáṇi X 126 3 “voi siete le migliori guide per guidarci”. L’infinito in -dhyai si comporta ugualmente, sia come un imperativo, sia come un prolungamento finale-consecutivo di una proposizione anteriore, più raramente di una parola particolare: ā́ suṣṭutī́ námasā vartayádhyai dyā́vā… pṛṭhivī́ V 43 2 “io voglio rivolgere verso di me con la mia lode, con il mio omaggio, il Cielo e la Terra”. Il tratto più sorprendente è la tendenza di questo infinito a unirsi alla flessione media del verbo, ad assumere sfumature che normalmente si esprimono con le desinenze del modo medio, cf. un buon esempio qui sotto n. 2. Gli usi isolati dell’infinito si deducono dai casi precedenti.

  1. Ricordiamo solo il caso di stuṣé (316) che funziona come un infinito con valore imperativo: il senso è passivo in un caso come stuṣé sā́ vām… rātiḥ I 122 7 “è degno di essere lodato questo vostro dono”. Da notare comunque che stuṣé, come le altre finali ambigue in -se, è trattato come forma personale in quanto è soggetto a perdere il tono in posizione non iniziale.
  2. Non c’è un esempio del tutto convincente di proposizione infinitiva. Si possono tuttavia riconoscere le condizioni preliminari in un caso come tváṃ ca soma no váśo jīvā́tuṃ ná marāmahe I 91 6 “se tu vuoi che viviamo, o soma, noi non moriremo” (jīvā́tum è letto come jīvā́tave 370); analogo I 129 4a III 1 1 V 74 3 X 74 6d (sempre con VAŚ-); altri es. possibili tásmā indram pratíram emy ā́yuḥ VIII 48 10 “vado a questo (soma) affinché Indra prolunghi la mia vita”; sá yáṣṭā sabardhúṃ dhenúm asvàṃ duhádhyai X 61 17 “egli sacrifica affinché (ottiene tramite un sacrificio che?) la mucca miracolosa dia il suo latte senza avere partorito”.

423. La voce. — Accanto alla voce normale, che è l’attiva, la voce media ha il proprio compito di segnalare che l’azione riguarda il soggetto più direttamente di qualsiasi altra persona; il soggetto (questa è l’essenza della formazione) è concepito come interno al processo. Questa opposizione tra attivo e medio è talvolta rilevata con forza, come nei processi rituali dove il medio indica che l’atto avviene a beneficio del soggetto (quindi, che il soggetto è il laico, patrono del sacrificio), mentre l’atto compiuto dall’officiante è espresso all’attivo, yájati “egli sacrifica (per altri)” / yájate “egli sacrifica per sé”. Normalmente la sfumatura è più debole o meno diretta. Una differenziazione frequente è quella di un medio intransitivo rispetto a un attivo transitivo, várdhate “egli cresce” / várdhati “egli accresce”, o, con variazione tematica, pávate “egli si purifica, scorre puro” / punā́ti “egli purifica” e altri esempi al 426.

Infine, c’è un medio riflessivo (spesso precisato da un pronome specializzato, ātmán dhatte, formula del YV. opposta a máyi dadhātu, passim; JUṢ- “gustare, piacere a, rendere qualcosa gradevole a” all’attivo, “piacersi” al medio); un medio reciproco; un medio con funzione passiva. Alcuni preverbi, in particolare ā́ e sám, facilitano, se non provocano, la voce media, cf. ā́-DĀ- che assume il significato di “prendere, ricevere” di fronte a DĀ- (attivo) “dare” (DĀ- al medio, senza prefisso, è attestato anche isolatamente nel senso di “ricevere”, come in I 40 4).

424. Ci sono molti casi in cui le desinenze medie appaiono senza differenze apprezzabili. Si vedano le opposizioni (coincidenti con una differenza di struttura) come hánti / jíghnate e altri esempi al 303; anche stṛṇóṣi / stárate I 129 4, dove le forme medie sono preferibilmente tematiche (ma esiste anche la distribuzione inversa). La finale -anta (303) si estende al di là dei “bisogni” del verbo in voce media e le desinenze secondarie sono generalmente medie; lo stesso vale per il participio - āna- , vedi uśāná- (e uśámāna-) che va di pari passo con l’indicativo attivo váṣṭi di VAŚ-. Al di fuori del sistema del presente, se l’aoristo e il futuro sono principalmente attivi, il perfetto, all’attivo, comporta un valore di stato che lo avvicina a un certo tipo di forme medie (da qui l’associazione pádyate / papāda di PAD- o mriyate / mamā́ra te MṚ-): si tratta di un dispositivo antico, che è stato appianato dalla creazione di un presente attivo a valore transitivo (várdhati citato in confronto a várdhaté), poi di un causativo (vardháyyati), e infine di un perfetto medio (vāvṛdhé). Diverse finali in -úr si raggruppano con le desinenze medie (es. vāvṛdhúr / vāvṛdhé).

  1. Su forme attive rifatte su antichi medi oscurati, tipo ā́dat aduhat, v. 339 314.
  2. Esempio di medio transitivo ṛñjáte (“segnalare una divinità con il proprio canto”, ecc.), in parte in contrasto con l’attivo ṛñjáti. Attivo intransitivo marjayasi (“tu ti purifichi”) IX 111 2 (e spesso nel tipo in -áya- 330; in -ya- 328, categoria preferenziale di verbi di stato, ecc.).

425. Passivo. — Il passivo non ha sviluppato una funzione autonoma, come dimostrano i fatti morfologici. È una specializzazione dell’intransitivo (“eventivo”), precisato con l’aiuto delle desinenze medie. D’altra parte, molte forme medie (morfologicamente non passive) possono assumere un significato passivo, come i presenti stávate (futuro staviṣyate, congiuntivo stuvītá), gṛṇīte, mṛñjata, huvé I 76 4 (3ª sg.) e molti altri 3ª sg. in -e; in particolare i participi (in parte aoristi) dei verbi corrispondenti, stávāna- huvāná- jóhu vāna- mṛjāná- marmṛjāná- vídāna- “conosciuto” (ma vidāná- “conoscente”) gṛṇāná-. Fuori dal sistema del presente, diversi perfetti, come dadé e dadhé di - e DHĀ-; l’aoristo passivo ví rādhiṣṭa. KS. MS. varia con ví rādhi TS. I 2 3 g.

Il regime d’agente è piuttosto raro nel complesso, il che dimostra che il valore passivo non è consolidato: si incontra più frequentemente in forme come mṛjyáte che hanno accanto un passivo morfologicamente non marcato (come sopra in mṛjāná-). Questo regime è all’I.; tuttavia, il G. si presenta con i nomi verbali, inclusi gli infiniti.

L’impersonale non è sconosciuto, sebbene sia di portata limitata. Si ha, sia alla voce attiva, ná mā taman ná śraman nótá tandrat II 30 7 “possa io non scoraggiarmi, stancarmi né disgustarmi!”, kitaváṃ tatāpa X 34 H “il giocatore si pente”; sia al passivo, śráddhitaṃ te maḥatá indriyā́ya I 104 6 “è stata riposta fiducia nel tuo grande nome di Indra”. Ci sono inoltre formule banali del tipo várṣati “piove”, vy ùchati “fa giorno”.

426. Tempi e modi. — L’uso dei tempi e dei modi non è preciso, nel senso che gli autori, sia per gusto di varietà, sia per ragioni di comodità morfologiche o ritmiche, passano costantemente da una forma all’altra per esprimere modalità che a noi sembrano situarsi su un piano simile. Le “varianti” attestano una notevole incertezza tra l’espressione indicativa e quella modale; all’interno dell’indicativo, tra le diverse espressioni del preterito e il presente. L’osservazione diretta degli inni (e, in misura minore, degli yajus) conduce alle stesse osservazioni. Sulla questione del preterito, vedi 428 sq.; sugli scambi intermodali (dopo aver escluso forme impossibili da classificare, come nel caso di alcuni imperativi/congiuntivi), vedi ad esempio vardhat / várdhāt / várdha VI 38 3 sq. o, più spesso, con scambio di temi, punātu / svadāti TS. I 7 7a, jeṣ am/ruheyam ibid. 8 a-b, duhām / gamyāt TS. III 2 7g, cf. ancora mandiṣīmahi VS. IV 14 / -he KS. Il 4, khyeṣam TS. 11 4 p VS. / akhyam MS. KS. e cf. 431 sqq. A ciò si aggiungono le variazioni di tema all’interno dello stesso modo 459; le variazioni di desinenze per una stessa forma (ad esempio, contiguamente, duhre/duhrate 1 134 6); infine i numerosi scambi di persone, in particolare tra la seconda e la terza.

427. Presente. — L’indicativo presente, tempo dell’attuale e del “generale”, serve anche per indicare un futuro prossimo (intenzionale o almeno prevedibile); per notare un passato, specialmente quando un tempo esplicitamente preterito è stato precedentemente usato. Infine, serve, se necessario, per indicare una sfumatura semi-modale di eventuale, quando è usato con le desinenze secondarie, cioè sotto forma di “ingiuntivo” (431).

Un esempio di sfumatura eventuale con desinenza primaria è mányate VI 52 2, affiancato a un congiuntivo, áti vā yó maruto mányate no bráhma vā yáḥ kriyámāṇaṃ ninitsāt “chiunque (chiunque egli sia) ci disprezzi o pretendi di criticare la formula che si sta facendo” (così, spesso, in frasi relative).

L’aggiunta della parola purā́. “in precedenza” indica l’estensione fino ad oggi di un fatto passato, sácāvahe yád avṛkám purā́ cit VII 88 5 “poiché siamo stati associati fino ad oggi senza danno”. Al contrario, l’aggiunta del gruppo sma purā́ (attestato solo nella RS.) trasferisce il presente al passato e stabilizza quest’ultimo come un passato abituale, samhotráṃ sma purā́ nā́rī sámana ṃ vā́va gachati X 86 10 “un tempo la donna partecipava al sacrificio comune o all’assemblea”. Sma da solo, apparentemente con lo stesso significato, X 33 1.

428. Tempi del passato. — L’imperfetto è la forma comune di narrazione nell’enunciato mitico. Benché non escluso dalla narrazione, l’aoristo indica propriamente che il fatto descritto è stato constatato dal soggetto, quindi rientra nell’esperienza personale e appartiene in principio al passato recente. Da qui l’uso nel discorso diretto, devā́ vaśā́m páry avadan / ná no ‘dād íti hīḍitā́ḥ AS. XII 449 “gli dèi parlavano sulla mucca, dicendo con collera: non ce l’ha data”; AS. XV 11 3 citato 451. Specifico dell’AS. è l’aoristo di anticipazione magica: si presentano come realizzati i fatti che si desidera vedere (o fare credere) realizzati; fin dalla RS. compare un aoristo di anticipazione.

Per quanto riguarda il perfetto, il suo valore proprio è “risultativo”. Il perfetto nota uno stato acquisito, come risultato di atti precedenti, tváṃ dyā́ṃ ca pṛthivī́ṃ cā́ti jabhriṣe IX 86 29 “hai superato portando il cielo e la terra”; abbraccia il passato e il presente, purā́ nūnáṃ ca stutáya ṛ́ṣīṇām paspṛdhré VI 34 1 “in passato e ora le lodi dei ṛṣi hanno gareggiato”; in frasi relative, abbraccia atti virtuali, yát sīm ā́gaś cakṛmā́ tát sú mṛḷatu I 179 5 “qualsiasi sia il peccato che abbiamo commesso, che ci perdoni!”. Tuttavia, il perfetto funziona anche ampiamente come tempo narrativo, per indicare i momenti più importanti della narrazione mitica; è raro nei fatti che riguardano l’esperienza del soggetto parlante, e quindi raro alla prima persona.

La distinzione tra imperfetto e aoristo è illustrata da abhí tvā jarimā́hita… yás tvā mṛtyúr abhyádhatta jā́yamānam AS. III H 8 “la vecchiaia ti ha incatenato [constatazione, e al tempo stesso, conclusione alla fine dell’inno]… la morte che ti ha incatenato alla nascita [ricordo di un fatto lontano]”. Tra perfetto e aoristo (imperfetto): in contrapposizione a jajāna (ájanayat) che evoca le nascite mitiche, ájījanat si riferisce alla produzione del soma, del fuoco, dell’inno attuale; ruroha generalizza ā́ruhat AS. XIII 1 26, āsa generalizza āsīt X 129 1-2; áśravam I 109 2 (“ho appreso”) si riferisce a un fatto familiare, śuśrava che segue (5) a un richiamo leggendario; yád indrā́han prathamajā́m áhīnām… tādī́tnā śátrum ná kilā vivitse I 32 4 “quando, o Indra, hai colpito il primogenito dei serpenti, da allora in poi non hai trovato veramente alcun nemico” (il perfetto allarga, un’esperienza).

  1. Kó mā dadarśa katamaḥ sá devó yó me tanvò bahudhā́ paryápaśyat X 51 2 “chi mi ha visto? Quale tra gli dei ha contemplato il mio corpo (disperso) in molti luoghi?” (imperfetto che particularizza un dato). Tátaś cainam anyéna śīrṣṇā́ prā́śīr yéna caitám pū́rva ṛ́ṣayaḥ prā́śnan AS. XI 3 32 “se hai mangiato [aoristo di constatazione] questo (riso) con una testa diversa da quella con cui gli antichi ṛṣi lo mangiarono [imperfetto di evocazione]”.
  2. Perfetto risultativo, alla voce media, contrapposto a un perfetto attivo narrativo, yásya priyé mamátur yajñiyasya ná ródasī mahimā́nam mamā́te III 32 7 “il venerabile dio la cui grandezza fu misurata dai due mondi amati, ma non fu (definitivamente) misurata [ermessen]”.

429. Anche il verbale in -- contribuisce all’espressione del passato, essendo preferibilmente aoristico, sattó hótā III 41 2 “l’hotṛ ha preso posto” come sādi hótā VII 73 2, sutáḥ sómah (passim) come ásāvi sómaḥ I 84 1. Ma esistono anche usi di preterito narrativo o non differenziato. Per quanto riguarda il trapassato remoto, è soprattutto (nelle forme che hanno possibilità di essere autentiche 337) l’imperfetto di un perfetto con valore non narrativo; le forme puramente preterite sono rare (átrā samudrá ā́ gūḷhám ā́ sū́ryam ajabhartana X 72 7 “allora portaste il sole che si nascondeva nell’oceano”), in generale rimane sottintesa una valenza risultativa, prá yád váyo ná svásarāṇy áchā práyāṃsi ca nadī́nāṃ cákramanta II 19 2 “così che i fiumi con i loro benefici si sono messi in movimento (e sono oggi ancora in movimento), come uccelli (andando) al rifornimento”.

430. Futuro e imperativo. — Il futuro indica un’azione che deve aver luogo in futuro secondo l’aspettativa o l’intenzione del soggetto, yád aṇgá dāśáṣe tvám ágne bhadráṃ kariṣyási távét tát satyám aṅgiraḥ I 1 6 “il bene che intendi fare, o Agni, a colui che ti adora, si realizza, o Angiras”. Tuttavia, vi è anche traccia di un futuro oggettivo, in opposizione a un passato “generale”, come nelle formule ná tvā́vām̐ indra káś caná ná jātó ná janiṣyate I 81 5 “nessun essere pari a te, o Indra, è nato né nascerà”. Non ci sono impieghi in proposizioni subordinate; alcuni in frasi interrogative. Per l’uso del condizionale, vedi 454.

L’imperativo esprime, oltre all’ordine (esortazione ad agire), il desiderio (preghiera, augurio). È necessario dissociare le forme di prima persona, che sono congiuntivi, e associare invece le forme (esortative) in -si, che esprimono richieste positive alla divinità (eccezionalmente in frasi relative) 316.

Imperativo che indica un’ipotesi, utá bruvantu no nídaḥ I 4 5 “supponiamo che i nostri detrattori dicano” (ma utá naḥ… vocéyuḥ nella frase parallela). Imperativo concessivo, ádhṛṣṭo va étavā́ astu pánthā X 108 6” anche se (dovesse risultare) che il vostro cammino fosse inaccessibile a chi volesse percorrerlo”.

Non c’è imperativo in proposizioni negative, né in subordinate (I 127 2g ha una subordinazione apparente); frequente, invece, in prolasi davanti a yá- yád. L’imperativo in -tāt non ha un valore distintivo: tuttavia, in alcuni passaggi (cfr. l’es. citato 433), dipende da una condizione che deve prima realizzarsi. TS. I 3 6 a lo si trova dopo un futuro.

431. Ingiuntivo. — Morfologicamente poco caratterizzato (303), l’ingiuntivo non è molto stabile sintatticamente. A volte equivale a un presente (“generale” piuttosto che attuale), a volte è una forma semi-modale che esprime l’eventuale: intermedio tra indicativo e congiuntivo, per indicare un’esortazione, un desiderio (es. X 95 10 citato 465), un’intenzione, un futuro.

La formulazione negativa avviene talvolta con (in frasi eventuali), talvolta e più spesso con mā́, mā́ no ví yauḥ sakhyā́ II 32 2 “non separarci dalla tua amicizia!”: è l’espressione normale della proibizione, che comunque è piuttosto in generale una semplice deprecazione.

L’uso di mā́ con forme con a aumento, imperativi, congiuntivi e altri è limitato a alcuni mantra recenti; tuttavia, già nella BS. antica, c’è la formula mā́ bhujema “possiamo non essere resi responsabili di…!”

Esempio di ingiuntivo a valore di presente “generale”: nū́ cit sá bhreṣate jáno ná reṣan máno yó asya ghorám āvívāsāt VII 20 6 “l’uomo non inciampa mai, non subisce danni, chi cerca di guadagnarsi [congiuntivo di subordinata] la sua anima terribile”: giustapposizione di indicativo e ingiuntivo; VU 7 6 tiranta (presente) si oppone così a atiranta, X 116 9 irayam a iyarmi.

Come imperfetto o aoristo non aumentato, l’ingiuntivo equivale a un preterito debole, di tipo narrativo e si appoggia su forme vicine aumentate o su perfetti: táva tviṣó jániman rejata dyaú réjad bhū́miḥ IV 17 2 “davanti al tuo splendore il cielo tremava alla nascita, la terra tremava” (scambio attivo/medio in aggiunta!).

Esempio di ingiuntivo modale, ahastā́ yád apádī várdhata kṣā́ḥ…súṣṇam pári pradakṣiṇíd viśvā́yave ní śiśnathaḥ X 2214 “affinché anche senza mani né piedi la terra cresca [caso raro di un ingiuntivo in subordinata], schiacciate Śuṣṇa con la mano destra per (il benessere di) tutta la vita!”

In breve, si tratta di una formazione indifferenziata, che nel suo nucleo deve appartenere allo strato più antico dei mantra. In ogni caso, il congiuntivo è in rapido declino dopo la RS., tranne nell’accezione proibitiva.

432. Congiuntivo. — Netto nella forma e in gran parte anche nel senso, il congiuntivo è caratterizzato distintamente. Alla prima persona, dove spesso compare dopo un imperativo, indica la volontà o l’evento atteso, auspicato, tendendo verso l’espressione di un futuro, dakṣinató bhavā mé ‘dhā vṛtrā́ṇi jaṅghanāva bhū́ri X 83 7 “stai alla mia destra, allora potremo uccidere molti nemici!”. Alla 2ª e 3ª persona, il desiderio di agire (esortativo) o di beneficiare di un favore è sottolineato come dall’ottativo, ma la tendenza dominante è l’espressione del futuro: ā́ ghā tā́ gachān úttarā yugā́ni yátra jāmáyaḥ kṛṇávann ájāmi X 10 10 “certamente verranno (= io lo desidero) epoche future in cui i fratelli faranno ciò che è vietato ai fratelli”. Questa tendenza fa si che il congiuntivo si affronti con un preterito, áchānta / chadáyātha I 165 12, jaghā́na / jaghánat IX 23 7, ecc.

Ma ci sono anche moltissimi esempi puramente modali, urúṃ na índraḥ kṛṇavad u lokám VII 81 2 “possa Indra procurarci un vasto spazio!”; o anche “eventuali”, implicando una sorta di affermazione valida al di fuori di ogni tempo preciso e subordinata a una condizione, sudeváḥ samahāsati… sá mártyaḥ / yáṃ trā́yadhve V 53 15 “favorito dagli dei è in ogni caso il mortale che voi proteggete”; c’è poca differenza qui con l’indicativo. Questo congiuntivo eventuale è adatto a figurare in frasi interrogative, in particolare con kuvíd “per caso?” (che è quasi sempre accompagnato dal congiuntivo). In frasi negative il congiuntivo è normalmente eventuale con sfumatura futura: só cin nú ná marāti nó vayám marāma I 191 10 “egli non morirà e neanche noi moriremo”, tipo di convinzione pregiudiziale degli inni magici.

433. Il ruolo predominante è nella subordinazione. Il congiuntivo è lo strumento caratteristico della subordinazione, la quale include relativamente pochi ingiuntivi e ottativi, mai imperativi. Molti congiuntivi indipendenti, quelli che seguono un imperativo (X 83 7 citato precedentemente), implicano una subordinazione latente. Nella frase relativa, nella frase con yád o yáthā, la sfumatura è eventuale-futuristica se la subordinata precede, finale-consecutiva (cf. 445 fine) se segue: sám pūṣan vidúṣā naya yó áñjasānuśā́sati VI 54 1 “Facci incontrare, o Pūsan, qualcuno che sappia, che possa informarci direttamente!”. Come nelle frasi non subordinate, il congiuntivo spesso serve solo a generalizzare, a rendere eventuale un’affermazione, yó yájāti yájāta ít sunávac ca pácāti ca / brahméd índrasya cākanat VIII 31 1 “colui che sacrifica per gli altri, per sé stesso, che spreme e cuoce, il brāhman (chiunque sia) trova gioia in Indra” (l’indeterminazione non è nell’atto stesso, ma nel fatto che l’atto si applichi a individui indeterminati).

Con yád nel senso di “se” e con yádi, il congiuntivo è altrettanto eventuale, úṣo yád adyá bhānúnā vi dvā́rāv ṛṇávo diváḥ / prá no yachatād avṛkám pṛthú chardíḥ I 48 15 “se è vero, o Aurora, che oggi con la tua luce apri i battenti del cielo, concedici l’ampia protezione, quella che allontana i pericoli”. Congiuntivo con yádi… yádi “sia che…” nell’AS.

La subordinazione è in regressione dall’AS. e nei mantra post-ṛgvédici in generale, dove il congiuntivo tende a confinarsi negli usi esortativi.

Si sono osservati congiuntivi con senso di preterito, I 70 7 a, 7-2 3b V 31 6c X 89 14 b (in subordinate), tutti passaggi che lasciano spazio a una certa incertezza.

434. Ottativo. — Molto più raro del congiuntivo, l’ottativo esprime soprattutto il desiderio e si trova con i verbi capaci di portare l’idea di un desiderio, di un atto presentato come indipendente dall’abilità o dalla volontà del soggetto: murīya VII 104 15 “che io muoia (se…)!” contrapposto a ná marā (congiuntivo) VIII 93 5 “è escluso che io muoia”. Vedi anche l’opposizione con il congiuntivo-eventuale, gató nā́dhvā ví tirāti jantúm prá ṇa spārhā́bhir ūtíbhis tireta VII 58 3 “come un cammino percorso promuove l’uomo (= è in grado di farlo progredire), gradite promuoverci con i vostri desiderabili aiuti!” Alla 1a persona, si tratta del desiderio di chi parla; alla 2a, di un voto o di una richiesta, a cui la 3a persona aggiunge il valore di un eventuale che implica desiderio, pṛṇánn āpír ápṛṇantam abhí ṣyāt X 117 7 “l’amico che dona prevale (dovrebbe prevalere, secondo il desiderio legittimo) su chi non dona”: in questo passaggio, l’ottativo, giustapposto a degli indicativi, tende al valore eventuale puro (indicativo indebolito) che si svilupperà dopo i mantra.

Per quanto riguarda l’ottativo prescrittivo, che deriva dall’ottativo del desiderio, ne appare un abbozzo in un passaggio in prosa dell’AS. XV (II 1-2) tád yásyaiváṃ vidvā́n vrā́tyó ‘tithir gṛhā́n āgáchet / svayám enam abkyudétya brūyāt “quindi, colui a cui arriva [ottativo eventuale] un vrātya che sa così, deve dirgli (che gli dica) andando incontro a lui…”

Nelle frasi subordinate, l’ottativo, che in generale ha frequenza solo con il yád di ipotesi, sottolinea il valore irreale: può in questi casi apparire tanto nella principale quanto nella subordinata: vedi l’es. VIII 44 23 citato 453 o (subordinata implicita) yamī́r yamásya bibhṛyād ájāmi X 10 9 “(se Yama acconsentisse al desiderio di Yamī), Yamī si assumerebbe l’incesto di Yama”; o anche, con valore passato, jakṣīyā́d dhānā́ utá sómam papīyāt X 28 1 “(se fosse venuto), avrebbe mangiato le sementi, avrebbe bevuto il soma”.

A volte un congiuntivo in subordinata risponde all’ottativo nella principale, yátaḥ khánāma… tátaḥ khánāma… tátaḥ khanema TS. IV 1 2 m-p.

Quanto al precativo, si distingue difficilmente dall’ottativo, se non che è limitato all’espressione del desiderio (sotto forma di preghiera rivolta alla divinità), yó no dvéṣṭy ádharaḥ sás padīṣṭa III 53 21 “chi ci vuole male, che cada a terra!” Non si trova in subordinate.

435. Causativo. — Il causativo può non avere alcun valore propriamente “causativo”, in particolare al modo medio, dove joṣáyāse III 52 3 non è diverso da juṣasva 4, né marjayanta da mṛjánti; anche all’attivo, si verificano fatti simili senza che si possa sempre invocare l’esistenza di un presente secondo il 330. Normalmente il causativo svolge il ruolo di un transitivo rispetto al “semplice” (in genere, al modo medio) che è intransitivo: è l’opposizione di vártate “egli gira” / vartáyati “fa girare” di VṚT-. Ma dove il semplice è transitivo, cioè ha sviluppato un sistema a desinenze attive, il causativo tende ad assumere un uso fattitivo, come vedayati “fa conoscere” o sādáyati “fa sedere”: tuttavia, la costruzione propriamente fattitiva, cioè con doppio regime di oggetto, è molto rara: un es. (II 37 6) citato 404, un altro VS. IX 11 índraṃ vā́jaṃ jāpayata “fate che Indra vinca il bottino!” In realtà, la distinzione tra kartṛ e hetu non è solitamente fatta nell’epoca dei mantra, e la sintassi del causativo è appena iniziata.

Si trova come causativo KṚ- con l’infinito D., tvám indra srávitavā́ apás kaḥ, VII 21 3 “o Indra, sei tu che hai fatto scorrere le acque”; forse il metodo più antico per esprimere il senso causativo. Altro es. con giustapposizione dei due metodi, sárvāṃs tā́m̐ arbude tvám amítrebhyo dṛśé kurūdārā́ṃś ca prá darśaya AS. XI 9 22 “faglieli vedere, o Arbudi, tutti, ai nostri nemici e mostragli anche degli spettri!” Analoghi I 113 9a, 131 5c, 164 49d e (con l’ausiliare DHĀ-) III 31 13a.

436. L’aoristo raddoppiato è transitivo, anch’esso, rispetto a un presente intransitivo (preferibilmente a desinenze medie), tipo arūrucat di fronte a rocate di RUC-, ma fattitivo di fronte a un presente transitivo, tipo ájījipata TS. I 7 8 r (con doppio Ac., una costruzione precedentemente sconosciuta) di fronte a jayati di JI-. Tuttavia, molti aoristi raddoppiati sono intransitivi, come adidyutat “ha brillato”, acikradat “ha urlato” (anche “ha fatto urlare”), asusrot “ha scorso”; alcuni altri, pur essendo transitivi, non si distinguono ulteriormente dal presente, come átuṣṭavam III 53 12 “ho lodato”.

Per una differenza tra le formazioni con raddoppiamento in i (u) e quelle con raddoppiamento in a, vedi il punto 342.

L’aoristo è così vicino per significato al causativo-presente: ā́ dyā́ṃ ráveṇa pṛthivī́m aśuśravuḥ X 94 12 “hanno del loro rumore fatto udire (= riempito) cielo e terra.” corrisponde a yá imā́ víśvā jātā́ny āśrāváyati ślokena V 82 9 “chi del suo rumore fa udire (= riempie) tutti questi esseri”; cf. 356. Ma non è prima dell’AS. che inizia ad apparire nel medesimo paradigma l’accostamento dei due temi, in formule come pāráyāmi tvā râjasa út tvā mṛtyór apīparam VIII 2 9 “ti faccio passare oltre lo spazio tenebroso, ti ho fatto passare oltre la morte”.

437. Coordinazione. — Numerose sono le particelle che servono sia per sottolineare una parola (soprattutto un pronome, un preverbio, un imperativo), sia per unirla a una parola vicina, sia infine per segnare direttamente o indirettamente la relazione tra due proposizioni. I mantra abbondano in forme e usi, con combinazioni di due particelle. Come altrove, i significati sono a volte incerti. Al limite, c’è coincidenza tra la particella e il pronome e le analogie sono sorprendenti da una all’altra.

a) Si possono considerare come enfatiche (senza pregiudizio di altri significati), cioè sottolineanti la parola annessa, il gruppo considerevole rappresentato dalle parole seguenti: aṅgá (situato dopo una parola iniziale di pāda), specialmente con VID- 1 (“conoscere effettivamente”) o dopo un pronome (tvám aṅgá I 84 19 “tu solo”, kím aṅgá “perché quindi?”, yád aṅgá “se è vero che”);

  • addhā́ (raro) “certamente”;
  • ápi (anche preposizione 377), prima o dopo la parola supportata: “inoltre, anche, persino” (raro RS.; più frequente AS. dove appare nā́pi XIII 4 16);
  • áha, soprattutto dopo pronome e particella, valori attenuati (“certamente, tuttavia”),
  • kvā́ha “dove quindi?”
  • nā́ha “nemmeno”;
  • ā́ (oltre l’uso come preposizione 378) è debolmente enfatico, dopo parole diverse, come in trír ā́ diváḥ passim “tre volte al giorno”; a volte è un semplice prolungamento di una desinenza anteriore, cf. ū́rmyāsv ā́ / śyāvā́su VI 48 6 (e ibid. ā́ śyāvā́ḥ);

ā́ cid “veramente” (a volte anche cid ā́); su ā́ nel senso di “e”, v. 439; nel senso di “come” (X 11 6), cf. I 134 3 dove la particella confina con iva, che può poi sostituire qua e là. ā́ diventa raro a partire dall’AS. — ā = moltiplicato per JB. II 71.

  • íd (molto frequente) sottolinea la parola precedente o la proposizione di cui questa particella segue la parola iniziale; il senso è a volte quello di evá, altre volte poco percepibile; máméd vardhasva súṣṭutaḥ VIII 6 12 “( qualunque sia la lode che ricevi), sono solo io a farti crescere con la lode” (traduzione libera); akṣaír mā́ dīvyaḥ kṛṣím ít kṛṣasva X 34 13 “non giocare ai dadi, coltiva (al contrario) la terra!”; éka íd “tutto solo” ivéd “proprio come” séd (sá íd) “è lui stesso, lui solo” tád íd “è proprio quello” yadéd “non appena”;

Il termine provoca l’accentuazione del verbo se quest’ultimo precede immediatamente e non ha un preverbio.

  • u (ū) (atono), enfatico leggero dopo una parola, in particolare un pronome o un verbo, con un valore spesso vicino a un deittico o un anaforico. Spesso si trova in combinazione con altre particelle; a volte anche come enclitico di frase. Nell’accezione usuale “generalizzante” dopo un relativo (yá u “chiunque”); nel senso di evá, accanto al quale figura, X 107 6;

Su u come particella copulativa, v. 439.

  • evá, specialmente dopo particelle e avverbi, “precisamente” o “solamente” (hástenaivá “in mani proprie” naívá “per nulla” tā́d evá “da allora” jātá evá II 12 1 “appena nato”);

Evá (con finale allungata) figura come particella deittica iniziale di strofa “così” (riferendosi a ciò che segue o a ciò che precede). Uso correlativo 452.

  • kám (tonico; antico interrogativo?) dopo un D. di interesse o un infinitivo D., tvā́m devā́so amṛ́tāya kám papuḥ IX 106 8 “gli dei ti hanno bevuto per l’immortalità”; uso generalizzante dopo relativo, yásmai kám TS. 12 11. Kam (atono) dopo alcune particelle esortative (un solo es. AS.);
  • kíla (raro) “in verità” (ná kíla “mai”);
  • khálu (X) dopo un imperativo (“dunque!”);
  • gha (ghā) (atono) dopo negazione, pronome, preverbio; valore debole;
  • cid (atono) “anche, tuttavia”, ā́ dṛḷháṃ cid árujo gávyam ūrvám III 32 16 “hai aperto rompendolo il recinto delle vacche, per quanto fosse solido”. L’enclisi di parola cede a volte all’enclisi di frase, determinando una posizione seconda del pāda, come in II 12 13b. Un altro uso, “generalizzante”, partendo da formule pronominali (444), si estende un po’ oltre, kṛtáṃ cid énaḥ prá mumugdhy asmát I 24 9 “allontana da noi, liberandoci, il peccato commesso, qualunque esso sia!”.

Su cid comparativo, v. 441; cid… cid nel senso di “non solo… ma anche” II 38 2 e 3 VI 28 6, ecc.

438. (tū́) (dopo una parola) accompagna per enfatizzare una seconda persona dell’imperativo (“quindi, infine”), ad esempio (tra preverbi) ā́ tv étā I 5 1 “venite dunque!”;

nel senso di “ma” appare in III 30 12 VI 29 5, più chiaramente in AS. IV 18 6 (unico esempio della parola in AS.).

  • (dopo una parola) (oltre al suo significato proprio, generalmente con vocale allungata: “ora”) è una particella esortativa o (dopo alcuni pronomi) generalizzante; spesso associata ad altre particelle con un valore più o meno debole (ín nú = íd; nū́ cid a volte rinforza semplice, a volte negativo 443);

, almeno nella forma vocalica lunga, è spesso iniziale con gli stessi usi di enclitica.

  • vaí (solitamente dopo una parola iniziale) enfatizza una frase in un racconto esplicativo; figura in particolare in vā́ u e ná vaí (“certamente no”); in rapida progressione a partire dall’AS.; (sū́) (dopo una parola) enfatica debole, riferita al verbo; figura spesso in combinazione con altre particelle come u utá nú kam. In rapido declino a partire dall’AS.; sma (smā) (atona) debolmente enfatica, in particolare dopo un pronome o una forma verbale (eventualmente resa ionica VI 4418);

Uso come modificatore temporale 427.

  • svid (= sú íd) (atona) di solito enfatizza un interrogativo precedente, o lo generalizza, hárī índrasya ní cikāya káḥ svid X 114 9 “chi dunque (chi per caso) ha scorto i due sauri di Indra?”;

Su svid interrogativo, v. 444.

  • ha (eccezionalmente ) (atona) frequente come enfatico leggero o indebolito in semplice giunzione; kád dha “come dunque?”
  • hánta (raro) esortativo, davanti a congiuntivo (ellitticamente in AS. “andiamo!”). Posizione indifferente:
  • infine (dopo una parola) (che tonifica il verbo) è talvolta ortativo forte (soprattutto davanti all’imperativo), talvolta equivalente di una subordinata causale (“dato che…”) o a volte concessiva (“sebbene…”), víśvo hy ànyó arír ājagā́ma. máméd áha śváśuro nā́ jagāma X 28 1 “mentre tutti gli altri del clan sono venuti, solo mio suocero non è venuto”; analogo 86 2 e 445; yác cid dhí “sebbene…”. Spesso associato a 4 3. Nel senso di “sì” (risposta) nel YV.

439. b) Sono propriamente congiunzioni:

  • ca (eccezionalmente ) (atono) coordina la parola dopo la quale compare con una parola precedente (a sua volta spesso dotata di ca); raramente con una parola successiva, índraḥ… rā́jā śâmasya ca ṣṛṇgíṇaḥ I 32 15 “Indra è il re di ciò che è addomesticato e di ciò che ha corna”.
  1. Ca non compare tra due V., ma trasforma uno dei V. in N. secondo 167 n.
  2. Ci sono altri casi di ca “mal posizionato”, ad esempio al terzo posto invece del secondo, áhaś ca kṛṣṇám áhar árjunaṃ ca VI 9 1 “il giorno nero e il giorno bianco”.

Ca da solo o ca ripetuto connette anche proposizioni, come enclitico di frase; la sfumatura di contrasto (“anche… come”, “non solo… ma anche”) comporta quindi normalmente la tonificazione del primo verbo (quando non è presente un preverbo).

Su ca come particella subordinante, v. 445.

Le altre particelle congiuntive hanno relativamente meno importanza.

  • ā́ è anche connettivo da parola a parola e ricorre in posizioni variabili, mahā́n gárbho máhy ā́ jātám eṣām III 31 3 “grande l’embrione, grande anche la loro nascita”; associato a ca X 16 1 1 (da cui forse deriva l’equivalenza ā́ = ca).
  • Più frequente utá, che collega parole posizionandosi di solito tra di esse (o dopo l’ultima, se ce ne sono più di due); oppure collega due proposizioni situandosi all’inizio della seconda, volentieri quindi all’inizio del verso. È una congiunzione enfatica, dinamica, adatta a figurare dove c’è contrasto o insistenza, ví vṛkṣā́n hanty utá hanti rakṣásaḥ V 83 2 “abbatte gli alberi e uccide anche (/ uccide persino) i demoni”.
  1. Frequentemente si ha utá… utá (utó), all’inizio di proposizione: “anche se da un lato… anche se dall’altro” 14 5-6; “anche così… tuttavia” I 153 4.
  2. Infine, la particella u collega anche due proposizioni situandosi normalmente (ma non sempre) dopo la parola iniziale della seconda, con valore (attenuato) di contrasto.

Si possono considerare congiunzioni di frase in senso ampio átha (áthā) “e allora, e così” (introducendo una conseguenza, un nuovo argomento): quasi sempre iniziale e spesso rinforzato in athó.

“Ma, al contrario” VI 54 7; semi-subordinante, ā́ bāhvór vájram índrasya dheyām áthemā́ viśvāḥ pṛtanā jayāti X 52 5 “voglio mettere il fulmine tra le braccia di Indra, in modo che che vinca tutte queste ostilità”.

Nella RS. antica (e a volte fino in AS.) si trova con lo stesso significato ádha (ádhā), il cui valore primario è locale: volentieri davanti a un’altra particella, ma non sempre all’inizio.

ā́d nel senso di “e” VIII 91 5 X 82 2, 86 18, ecc. (anche ā́d u, ā́d… utá).

440. c) Disgiuntivi: La particella essenziale è (atona) che si presenta come ca, cioè a volte da sola a volte ripetuta, per esprimere una disgiunzione tra due parole o due proposizioni. è rinforzato in utá vā I 109 2 ádha… ádha vā (“o … o”); ripetuto, può introdurre un’alternativa esclusiva, nel qual caso il primo verbo può essere tonificato, áhaye vā tā́n pradádātu sóma ā́ vā dadhātu nírṛter upátsthe VII 104 9 “che Soma li consegni al drago, o che li ponga nel grembo della distruzione”.

d) Non ci sono avversativi stabili, sebbene le particelle sopra descritte átha ádha tú possano occasionalmente assumere questo ruolo.

441. e) Sono comparative (“come”) tre particelle frequenti:

1) iva (atona; a volte da leggere come va, almeno secondo le apparenze, vedi 123), che riguarda una parola o un gruppo di parole più o meno breve; raramente iva è anteposto alla parola su cui si riferisce; a volte il senso è indebolito “in un certo senso, per così dire”; yátheva X 86 7 néva (“nemmeno”) AS. X 8 25; 2) yathā (atona), stesso uso, ma quasi sempre alla fine del pāda, in opposizione a yáthā tonico (451). L’uso diventa molto raro nell’AS., dove si sviluppa invece yáthā tonico; 3) infine (dopo una parola; raramente anteposto) è, nonostante la differenza di posizione, forse identico nella sua essenza alla negazione (l’evoluzione semantica sarebbe “non è”, da cui “assomiglia a”); accompagna, come iva, una parola isolata o un gruppo ristretto; vedi esempi 460. L’uso è in netto declino dopo la RS.

Più o meno isolatamente, 4) I 91 3 VI 24 3; 5) cid I 41 9 II 33 12 III 31 12,53 22, ecc.; forse 6) evá X 120 9b e 7) ā́ 437. Questi usi sono nati dal contatto tra queste diverse particelle e un termine propriamente “comparativo”.

442. Un posto speciale può essere dato a certe forme pronominali degradate al rango di particella, ma che conservano qualcosa della loro antica appartenenza. Si tratta del gruppo (quasi esclusivamente limitato alla RS. e atono) ī (raro) īm sīm: in alcuni passaggi c’è sopravvivenza di un uso anaforico o come “segno” che annuncia un Acc. successivo; ma di solito sono particelle espletive. Si trovano unite ad altri pronomi, ad esempio, con la sfumatura “generalizzante” usuale, yá īm “chiunque che” yát sīm “tutto ciò che”.

Kīm 290 è imparentato con queste forme.

Altre particelle pronominali (oltre a íd 437 ā́d 439) sono tátas “allora” tā́d “di conseguenza”, ecc., più spesso tád le cui valori, molto sfumati, sono soprattutto “allora” (temporale) e “così” (esplicativo): tád è uno degli strumenti privilegiati della connessione sintattica.

Sugli usi “correlativi”, vedi 445 sqq.

443. Negazione. — La negazione comune (tranne nelle frasi proibitive, vedi 431) è , utilizzata nelle frasi modali e soprattutto in quelle indicative; relativamente poco nelle subordinate dove si sono iniziate a formare espressioni negative particolari. La posizione preferita (in opposizione a “come” in 441) è sia all’inizio della proposizione, sia davanti al verbo.

  1. La negazione di una parola è á(n) 160; tuttavia appare di tanto in tanto, almeno davanti a nomi verbali, ná vidvā́n = ávidvān I 164 6, ná dábhāya = ádabdhaḥ “impossibile da ingannare”.
  2. Rinforzi in nahí (con na proclitico); nanú (id.) “mai” (ma “non è vero?” in AS.), attestato due volte nel Libro X; nákīm (due volte in RS.); nákis 290. La combinazione (rara) nú ná o ná… nú ha dato origine a un nū́ cid negativo di per sé; un esempio come ná yád dūrā́d vasavo nū́ cid ántito várūtham ādadhárṣati VIII 27 9 “(dacci) protezione, o Buoni, in modo che non possiamo essere attaccati da lontano o da vicino” mostra bene la transizione da mi generalizzante a mi negativo. — Ná hí e ná ki, ná kís in SS.

La frase negativa non è né molto sviluppata né, di gran lunga, così articolata come la frase positiva; lo schema è rudimentale. La doppia negazione (rara) è affermativa in ná nā́nu gāní IV 18 3 “voglio seguire”, negativa in nā́háṃ tántuṃ ná vi jānāmy ótum VI 9 2 “non so né tendere (il filo) né tessere” [poco probante].

Caná (non iniziale) a) svolge il ruolo di ca dopo una proposizione negativa, con la negazione mentalmente riproposta (“e… nemmeno”); da cui b) il senso di “anche” in una proposizione che già contiene la negazione (índraṃ ná mahnā́ pṛthivī́ caná práti I 55 1 “nemmeno la terra è pari a Indra in grandezza”). Di qui, a seguito di nuove estensioni, c) caná in frase non negativa (né preceduta da frase negativa riproposta), ádhā caná śrád dadhati tvíṣīmata índrāya vájraṃ nighánighnate vadhám I 55 5 “poiché confidiamo nella furia i Indra quando abbatté potente l’arma (della) morte”; d) caná negativo senza incitazione esterna, mahé caná párā śulkā́ya deyām VIII 1 5 “non ti consegnerei nemmeno per una grande ricompensa” (ma in VIII 2 14 citato 418 la negazione è nel membro di frase successivo). Caná generalizzante figura volentieri con l’interrogativo accompagnato dalla negazione (ná káś caná “nessuno”) o non accompagnato (káṃ caná I 113 8 “idem”).

Accanto a mā́ 431 si trovano le forme rinforzate mó mā́kis mā́kīm 290; mā́ kīm in SS.

444. Interrogazione. — L’interrogativo (ká- 290) può dipendere da una parola annessa, almeno da un participio. Il neutro (kím), oltre all’uso pronominale, significa ancora “perché?” e (più raro) “è così?” (X 129 1 VII 86 2, prob. kím u… kím “è … o è?” I 161 1). L’altra forma del neutro, kád, appare più raramente nel senso di “perché?” (X 10 4) e “è così?” (I 105 6 IV 23 2; senso noto anche per kathā́ IV 23 3 e 5 e forse kathā́ kád ibid. 5).

L’interrogativo è seguito da un gran numero di particelle, che talvolta gli conferiscono un valore enfatico, più spesso “generalizzante” o “eventualizzante”, vedi i paragrafi precedenti. Il valore indefinito puro, cioè con perdita del senso interrogativo, esiste soprattutto nelle locuzioni káś ca e (ná) kaś caná o ancora káś cid “qualcuno” e (negativamente) “nessuno”, ma queste locuzioni figurano soprattutto in frase relativa, per contribuire all’espressione del relativo-indeterminato. Locuzioni analoghe si incontrano con la maggior parte dei derivati del tema ká-, per esempio katamá-kadā́ kútas kútra; vedi anche kác cid “in ogni caso” e a metà strada kvà svid X 34 10 “non si sa dove”. Un altro tipo di indefinito utilizza la ripetizione dell’interrogativo, kā́ni kā́ni cid VIII 102 20 “qualsiasi” (raro).

  1. Interrogativo solo (in frase negativa) a senso indefinito I 80 15 IV 313.
  2. Kuvíd (verbo tonico a causa di íd) “(mi chiedo) se per caso…?” o “spero che…” (congiuntivo), quindi con subordinazione implicita.

La giustapposizione di due interrogativi a valore diverso che riguardano lo stesso predicato non è rara, kó ha kásminn asi śritáḥ I 75 3 “chi sei, e presso chi sei stabilito?”

L’interrogazione si segnala anche dalla particella svid (che ha assunto questo impiego a causa della sua frequente contiguità con ká-, vedi 438). Si ha così un’interrogazione doppia svid… svid (con pluti). Oppure (anche con pluti) idáṃ nú tā́3d iti AS. XII5 50. Infine, esiste un’interrogazione senza particella, sottolineata dalla pluti, come ná tvā bhī́r iva vindatī3m̐ X 146 1 “la paura non ti raggiunge forse?”

445. Subordinazione. — Il verbo tonico a volte è sufficiente per indicare la subordinazione: in questo caso, si tratta di solito della prima di due proposizioni consecutive che implicano un valore di contrasto; l’accento sul primo verbo (accento di riferimento) significa “mentre, sebbene” o “dato che, poiché”. Un es. citato 393 (AS. X 7 42), oppure prā́yus tā́riṣṭaṃ nī́ rápāṃsi mṛkṣatam I 34 11 “prolungate (la nostra) durata di vita, (dall’altro lato) cancellate i danni (che abbiamo potuto causare)”; a volte il verbo accentato è solo inscritto, mentre la seconda parte della frase presenta l’ellissi dello stesso verbo, sū́rye jyótir ádadhur māsy àktū́n X 12 7 “hanno messo lo splendore (del giorno) nel sole, (quello delle) notti nella luna”; mányate AS. XII 4 6 “se pensa che”.

A volte una particella non propriamente subordinante svolge un ruolo di subordinante, con verbo tonico: è il caso in particolare di (es. 438 fine.) con valore causale, e di ca ripetuto con valore “contrastato” (439).

Può accadere che, senza tonificazione del verbo, una particella dia alla proposizione un valore di subordinata: è il caso probabile di *pári cín márto draviṇam mamanyād ṛtásya pathā́ námasā́ vivāset utá svéna krátunā sáṃ vadeta śréyā ṃsaṃ dákṣam mánasā jagṛbhyāt* X 34 2 “se il mortale assedia la ricchezza con il pensiero, che aspiri alla via dell’Ordine; se si consulta con la sua forza deliberantiva, raggiungerà la decisione migliore”.

L’uso più interessante è quello di ca “se”, con verbo tonificato: gli esempi della RS. sono rari, imā́ṃ ca vā́cam pratiháryathā naro víśvéd vāmā́ vo aśnavat I 40 6 “se, uomini, accettate questa parola, vi procurerà ogni favore” e (verbo al congiuntivo) X 108 3 e alcuni altri, dove la sfumatura è talvolta “quando” piuttosto che “se” (III 43 4). Nell’AS. l’uso si precisa un po’, come in XI 3 32-49 (prosa).

Il caso normale è la subordinazione esplicita. È frequente e variata, spesso complessa (proposizioni intrecciate tra loro, ecc.). Con due o tre eccezioni, la congiunzione deriva dalla base yá-. La sintassi modale è invece poco sviluppata: il modo è quello che il senso generale richiede, non la congiunzione. Il sistema dei correlativi è instabile, il correlativo è più frequente là dove la principale è in apodosi. La sua posizione è anche poco definita. Un verbo iniziale, un preverbo, una parola sottolineata da íd fungono da correlativo formale.

  1. Doppio subordinante con uso diverso, yátra… yáthā III 32 14 yád yā́vataḥ VII 32 18, ecc.
  2. Non c’è concordanza temporale tra la principale e la subordinata; un caso come vrādhanta / yé… bhuránta V 6 7 si spiega con la “perseveranza”; altrove la coincidenza dello stesso modo nelle due parti del dittico, che è frequente, si giustifica per ragioni interne. È evidente tuttavia che l’ottativo attira l’ottativo, come nell’esempio VIII 42 3 (446) e 453 b.

La posizione relativa della subordinata e della principale è variabile: solo la sfumatura finale-consecutiva comporta in modo stabile la postposizione della subordinata.

446. Relativa. — La relativa, guidata dal tema yá- (a cui si aggiunge yátas “da cui, dal quale”, yátra “in cui, nel quale”), è di ampio impiego.

  1. Yá- figura incidentalmente come parte anteriore 289 (cfr. con un derivato del relativo il composto yāvadaṅgī́nam AS. “avente una parte di quale dimensione”, correlativo tā́vat). Rileva l’indeterminato, sia per ripetizione di tipo āmreḍita (yó-yaḥ “chiunque” 289); sia per aggiunta dell’interrogativo e della particella ca (yáḥ káś ca “id.”), talvolta di cid; di caná TS. IV 7 15 v; o infine per aggiunta della sola particella, yáś cid (raro) “id.” (yáthā cid X 64 13).
  2. Infine yá- può dipendere da una parola particolare, soprattutto da un nome verbale o participio.

La relativa è posizionata talvolta in protasi talvolta in apodosi: questa seconda posizione è normale, come appena ricordato, in caso di sfumatura finale-consecutiva, senso che di solito enfatizza il verbo al congiuntivo: tád adyá vācáḥ prathamám masīya yénā́surām̐ abhî devā́ ásāma X 53 4 “vorrei pensare a questo come al primo punto del mio discorso (ossia, il mezzo) con il quale potremo sconfiggere gli Asura, noi dèi”; altro es. VI 54 1 citato 433. Nei casi, notevolmente meno frequenti, dove il verbo è all’ottativo, la relativa è in protasi, *yáyā́ti viśvā duritā́ tárema sutármāṇam ádhi nā́vaṃ ruhema VIII 42 3 “che possiamo salire sulla nave salvifica, con la quale attraverseremo tutti i mali!”

Altrove, le due posizioni della relativa si bilanciano. Il correlativo tá- è normale in apodosi, yó jāgā́ra tám ṛ́caḥ kāmayante V 44 14 “colui che veglia, le strofe lo amano”; si trova anche, seppur molto meno frequentemente, il pronome á- in una forma obliqua, yásya… asmaí VII 11 2. In protasi il correlativo è meno frequente (tā́m agne asmé íṣam érayasva… yáyā rā́dhaḥ pínvasi VII 5 8 “suscita per noi, o Agni, quella gioia di cui tu lasci gonfiare la tua liberalità” o, con a- atono, anyé jāyā́m pári mṛśanty asya yásya X 34 4 “altri abbracciano la moglie di colui che…”). Si trovano ancora come correlativi ā́d II 17 4 idám (avverbiale) I 23 22, 185 11 u (passim) ed altri, ma l’assenza di ogni correlativo formale è altrettanto frequente.

447. L’antecedente è spesso inserito nella relativa, con attrazione al caso del relativo, nā́smai vidyút… siṣedha ná yā́m míham ákirat I 32 13 “non gli servì a nulla il lampo né la nebbia che egli spargeva”; stessa attrazione (molto più rara) per un antecedente posto prima della relativa, ví vṛhataṃ víṣūcīm amīvā yā́ no gáyam āvivéśa VI 74 2 “Allontanate da noi la malattia che ha penetrato nella nostra casa”. L’antecedente può essere ripreso nella principale, yé te pánthāḥ… tébhir no adyá pathíbhiḥ I 35 11; analogamente AS. XI 8 16.

Attrazione della persona, imé ta indra té vayám puruṣṭuta yé tvārábhya cárāmasi I 57 4 “siamo tuoi, o Indra tanto lodato, (siamo) quelli che hanno l’abitudine di avvicinarsi a te”.

Il collegamento è spesso impreciso tra la relativa e la principale, determinando eventualmente ciò che si può chiamare un anacoluto: yā́ cin nú vajrin kṛṇávo dadhṛṣvā́n ná te vartā́ táviṣyā asti tásyāḥ V 29 14 “le cose che fai (qualunque esse siano) con audacia, o portatore del fulmine, non c’è nessuno che possa fermare questa tua forza”. Si ha così yásya per yám asya IV 17 19, per yó asya (con asya riflesso) IV 21 1; più generalmente yá- equivalente a “se (qualcuno, se io, se tu)”, yó asya syā́d vaśābhogáḥ AS. XII 4 13 “qualunque sia l’uso che faccia della mucca, (egli…)”. Oppure (senza anacoluto) stenó vā yó dípsati no vṛ́ko vā tváṃ tásmād varuṇa pāhy asmā́n II 28 10 “se un ladro o un brigante ci vuole del male, proteggici da lui, o Varuṇa”.

Così anche yá- nel senso di yáthā “come” I 80 16 IV 6 6 o di yád “mentre che” I 72 9, 164 3 II 17 4, ecc. (yátas nel senso di yádi sá 1 141 1).

448. La frase relativa, almeno quella senza verbo, può sostituire la semplice menzione di un nome (giustapposto o coordinato ad un altro) che sarebbe al nominativo o all’accusativo, in modo da avvolgerlo in un’atmosfera “generalizzante”: ví jānīhy ā́ryān yé ca dásyavaḥ I 51 8 “distingui gli Ari e quelli (qualsiasi essi siano) che sono dei Dasyu”; ciò avviene anche per un aggettivo, víśve marúto yé sahā́saḥ VII 34 24 “tutti i Marut, i potenti”; per un’espressione complessa, anche a un caso obliquo, deṣṇáṃ yát pā́rye diví VII 32 21 “come dono nel giorno decisivo”. Ma l’uso tipico è alla fine di un’enumerazione; più raramente il relativo si inserisce, come in II 32 8, con ogni termine enumerato. In questo uso, sicuramente arcaico, yá- gioca il ruolo di un articolo. La struttura si sviluppa notevolmente nell’AS. dove l’indeterminazione causata da questo pseudo-relativo viene utilizzata a fini magici. Emana direttamente dalla frase nominale: dato che si aveva in stile nominale yā́ni te kártvāni “le cose che devi fare”, si poteva liberamente annettere questo gruppo di parole a una proposizione verbale come vīryā̀ kṛdhi (II 30 10) e arricchire così la frase lineare kartvām te vīryā kṛdhi.

  1. Relativa indefinita nello stesso impiego, yā́ḥ kā́ś ca vīrúdhaḥ AS. XI 4 17 “tutte le piante possibili”.
  2. Lo stesso uso si trova occasionalmente senza yá-, catasras sūktayas tābhyas tvā vartayāmasi KS. XIII 9 “i quattro inni, … attraverso di loro ti attiriamo qui”: questo è quello che si può chiamare un nominativo “pendens”.

449. La relativa è o di tipo definitorio — equivale quindi a un nome, a un participio, a un composto nominale a seconda del caso; o di tipo attributivo (per attribuire una qualità a tale o tal altro soggetto): questo secondo tipo è meno rappresentato e la correlazione è meno stretta. L’antecedente è un nome o un pronome (il pronome può essere implicito in una forma personale del verbo); può essere una proposizione, come in yád dha vo bálaṃ jánām̐ acucyavītana I 37 12 “avete scosso gli uomini, ciò che è (una manifestazione) della vostra forza”. In caso di antecedente pronominale (es. kád yád I 161 1 “ che cos’è?”), si può dire che la frase principale viene all’esistenza solo per mezzo della relativa, yó revā́n yó amīvahā́… sá naḥ siṣaktu I 18 2 “lui che è ricco, che scaccia il male, si unisca a noi” (tipo attributivo). La formula yá eváṃ véda (“colui che così sa” = che conosce l’essenza delle cose, il bráhman) inizia con i passaggi in prosa dell’AS.

  1. Semplificazione nella giunzione tra antecedente e relativo, anyéna śīrṣṇā́ yéna cité 428 n. 1. Antecedente omesso I 113 10b.
  2. Yatará- e yatamá- sono eccezionali; yā́vant- “tanto grande quanto” (pl. “tanti quanti”) può avere come correlativo tā́vant- (anche lā- nell’AS.). In proposizione nominale, il correlativo manca.
450. Complementare. — È introdotta da yád, che propriamente è il neutro del relativo. La subordinata è generalmente in apodosi e il correlativo, quando c’è, è tád: *gṛṇé tád indra te śáva upamáṃ devátātaye yád dáṃsi vṛtrám ójasā* VIII 62 8 “canto, o Indra, questo tuo supremo gesto per la comunità divina, cioè che tu abbatti Vṛtra con la tua forza”. Dopo “volere” (raro) ná te sákhā sakhyáṃ vaṣṭy état sálakṣmā yád víśurūpā bhávāti X 10 2 “il tuo amico non desidera questa amicizia (consistente nel fatto) che quella degli stessi segni diventi di forma diversa”. Così anche ŚRU- + yád, passim, vivéṣa yád III 32 14 “ha provocato (il fatto) che”. La complementare può essere più liberamente collegata al contesto e figurare come soggetto: yád uṣa aúchaḥ prathamā́ vibhā́nām… mahán mahatyā́ asuratvám ékam X 55 4 “il fatto, Aurora, che tu sia stata la prima a risplendere, è (solo) a causa della grande forma asuriana della grande (Aurora)”; nákiṣ ṭvád rathī́taro hárī yád indra yáchase I 84 6 “nessuno è miglior auriga di te (qualità consistente nel fatto) che, o Indra, tu tieni le redini dei due cavalli sauri”; “la ragione per cui” IV 2 14 (incerto).

Nel complesso, la complementare non è di uso frequente né flessibile. Si può considerare che in alcuni passaggi, yáthā (situato in apodose) introduca una complementare, íti tvā devā́ imá āhur aiḷa yáthem etád bhávasi mṛtyúbandhuḥ X 95 18 “così questi dei hanno detto, o figlio di Iḍā, che tu sei parente della morte” (anche se il vero senso sembra essere: ti fanno sapere quanto tu sia legato alla morte, e in ogni caso c’è un collegamento tra yáthā e íti); ná pramíye savitúr daívyasya tád yáthā víśvam bhúvanaṃ dhārayiṣyáti IV 54 4 “questo del divino Savitṛ è indistruttibile, (cioè) che è destinato a portare l’intero mondo”; meno chiaro vidmā́ hí te yáthā mánaḥ I 170 3 dove, inoltre, la semi-complementare è una proposizione nominale (“conosciamo il tuo stato d’animo” o “come è il tuo stato d’animo”).

451. Circonstanziali. — La proposizione causale non ha una sintassi definita. Di tanto in tanto yád può essere plausibilmente tradotto con “perché” o “in ciò che”, con correlativo tád o téna, yád enam ā́ha vrā́tya kvā̀vā́tsīr íti pathá evá téna devayā́nān áva rundhe AS. XV 11 3 (prosa) “per il fatto che gli ha detto: vrātya, dove abiti?, egli si guadagna le vie percorse dagli dei”; in spiegazione pseudo-etimologica, con correlativo tásmāt, AS. III 13 1.

Yátas può significare “dato che” I 25 17.

La frase comparativa (“come”) utilizza yáthā, generalmente in protasi e all’inizio della proposizione; il correlativo usuale è evá (evā́), vedi V 78 7 X 18 5; raramente evám (Libro X e MGS. I 2 13) itthā́ I 39 7 etā́vat VIII 49 9 (in prolasi) tád passim; raramente táthā.

La frase temporale comprende anch’essa yád, esprimendo il “quando” nella sua forma più generale, spesso impregnata di valori non temporali, kám apaśyaḥ… yát te jaghnúṣo bhī́r áyachat I 32 14 “chi hai visto, quando ti è venuta la paura che avevi ucciso? (o: affinché la paura sia andata…)”. Sfumatura locale “là dove” (correlativo tátra) AS. I 25 1. I correlativi sono tá- (specialmente nel neutro avverbiale), anche ā́d o átra. La posizione della subordinata è mal definita.

Sfumatura “fino a quando” (con congiuntivo) I 113 10.

Yadā́ “appena che” con l’aoristo, che eventualmente assume il valore di più-que-parfait; anche “quando”, con tempi variabili. I correlativi sono tád ádha átha ád; tárhi inoltre nell’AS.

Inoltre, yátra può significare sia “quando” che “là dove”, stessi correlativi.

  1. Anche “mentre (facendo la qual cosa)…”, III 31 1.
  2. Yátas “non appena” (III 10 6).
  3. Yā́d “fino a quando” (Libro I, con il congiuntivo a tendenza futuro). Nell’AS, “per quanto” o “da quando”, con “tā́d” come correlativo.
  4. Purā́ non va oltre la proposizione elementare all’infinito (421 n.).
  5. Yā́vat “tanto, ogni volta che, fintanto che” (III 18 3). Troviamo anche Yadā́ kadā́ ca, che significa “quando” (eventuale) nell’AS (I 288).

452. Finale-consecutiva. — La proposizione finale è introdotta da yád (quasi sempre seguito dal congiuntivo) e, più spesso, yáthā “affinché, in modo che”, seguito dal congiuntivo o, meno frequentemente, dall’ottativo. La postposizione della subordinata è normale, havíś kṛṇuṣva subhágo yáthā́sasi II 26 2 “prepara l’offerta per diventare fortunato”; costante anche nel caso del congiuntivo. La proposizione principale è spesso di natura ortativa (imperativo, injonctif, congiuntivo) e la correlazione esplicita di solito manca; quando è attestabile, viene indicata con táthā, tád e soprattutto evá.

  1. Yā́d “affinché” X 68 10.
  2. Néd (= ná íd) (con congiuntivo) appare tre volte, di cui due nel Libro X, nel senso di “per timore che” ; alcuni altri esempi AS.; ma in questo senso è post-mantrico.
  3. Sull’espressione di finalità-consecuzione mediante il relativo, v. 446.

453. Condizionale. — La proposizione ipotetica è introdotta: a) da yád: la modalità, in caso di condizione reale o probabile, è l’indicativo o il congiuntivo con tendenza al futuro. L’ottativo è riservato per l’espressione dell’irreale (434), yád agne syā́m aháṃ tváṃ tváṃ vā ghā syā́ ahám | syúṣ ṭe satyā́ ihā́śísaḥ VIII 44 23 “se, o Agni, io fossi tu o tu fossi me, le tue preghiere qui si realizzerebbero”; id. VII 32 18 VIII 19 25; il modo è lo stesso nelle due proposizioni. Non c’è correlativo o, al massimo, átra tátas (AS.) átha (AS.);

b) Più frequente è yádi con il tempo o la modalità determinati dal contesto, e per indicare una condizione reale o probabile. L’ottativo è inusuale, tranne in un passaggio di SS. (I 82) dove è causato dall’attrazione. I correlativi sono ádha ā́d (o: ā́d íd) ma nel complesso poco frequenti. Posizione indifferente della subordinata.

  1. Con un presente (o un perfetto con valore di presente) adyā́ murīya yádi yātudhā́no ásmi VII 104 15 “che muoia oggi se sono un mago!”
  2. In contesto preterito, yádi può equivalere a “quando”, il verbo ha valore di imperfetto, vidád yádī sarámā rugṇám ádrer máhi pā́thaḥ pūrvyáṃ sadhryák kaḥ III 31 6 “quando Saramā avrà trovato (o: se trova?) la fessura nella roccia, realizzerà la sua grande antica dominazione”.
  3. Ellissi della proposizione principale, yádi vāhám ánṛtadeva ā́sa… kim VII 104 14 “se mai ho avuto come dio l’errore (merito la morte; ma, non essendo stato così), perché…?”
  4. Yádi… yádi (o: yádi… yâidi vā, o infine yádi [vā]… vā) introduce una doppia ipotesi esclusiva o meno: più frequente nell’AS. Ma yádi vā equivale semplicemente a X 129 7d AS. XIII 2 7.
Infine c) céd (= ca + íd) (secondo termine della frase), attestato solo 4 volte nella RS., funge da particella condizionale-temporale, in una frase indicativa. Il significato condizionale si accentua nell’AS., come ad esempio V 17 8 dove la parola è giustapposta a yád di ipotesi, con una sfumatura che la traduzione permette di evidenziare: *utá yát pátayo dáśa striyā́ḥ pū́rva ábrāhmaṇāḥ brahmā́ céd dhástam ágrahīt sá evá pátir ekadhā́* “e anche se la donna avesse avuto dieci mariti, non brāhmani, se [supponiamo che] un brāhmano prenda la sua mano (per il matrimonio), allora è lui il marito fin dall’inizio”.

Sulca d’ipotesi, v. 445.

454. Discorso diretto. — Il discorso diretto - una frase detta o che potrebbe essere formulata, essendo pensata o riflettendo ciò che in una determinata circostanza una persona può pensare – è contrassegnata dalla particella íti postposta, il cui significato proprio è “così” (tema i dettico). Il passaggio da “così” al ruolo di strumento del discorso diretto è evidente in íti va íti me máno gā́m áśvaṃ sanuyām íti X 119 1 “così in verità (va) la mia mente: potrò guadagnare una mucca, un cavallo, così (pensai)?” ; analogo a X 95 18 citato in 450. La parola appare con verbi dire o pensare (espressi o meno), la frase diretta è breve, spesso ellittica: yátra devā́ íti brávan IX 39 1 “(fluisce) là dove si dice: (ecco dove sono) gli dèi!” íti krátvā “con l’intenzione (che si esprime con le parole che seguono)”. Siamo chiaramente agli inizi di un processo. L’uso, ancora raro nella RS. antica, si sviluppa un po’ in seguito. La situazione normale rimane il discorso diretto senza particella.

  1. In generale, íti conclude l’espressione diretta e si trova davanti al verbo “dire” più spesso di quanto il verbo “dire” sia posto prima di íti. Inoltre, si trova anche íti inserito nella frase diretta.
  2. Íti può rappresentare ciò che esprimeremmo con una completiva, índrāya sunávāméty ā́ha IV 25 4 “colui che dice: vogliamo spremere (il soma) per Indra”.
  3. Notare la frase diretta consistente in un V. (costruzione frequente nell’AS.), yó mā móghaṃ yā́tudhānéty ā́ha VII 104 15 “colui che mi chiama erroneamente un mago”. Il V. esprime la designazione in modo più vivido di quanto farebbe un N. o un Ac.

Ci sono tracce di discorso indiretto nelle proposizioni relative dipendenti da “sapere; chiedere; annunciare”: pṛchā́mi yátra bhúvanasya nā́bhiḥ I 164 34 “chiedo dove si trova l’ombelico del mondo” (la subordinata è di tipo nominale). Nel verso II 30 2 si trova un condizionale che rappresenta il trasferimento nel passato del futuro deliberativo, yó vṛtrā́ya sínam átrā́bhariṣyat prá táṃ jánitrī vidúṣa uvāca “sua madre predisse al saggio (il nome di) colui che vendicò Vṛtra in questo caso”. Un cambio di persona è probabile I 24 13. In breve, lo stile indiretto è nei suoi primi rudimenti e non ha alcuna base sintattica stabilita.

FATTI DI STILE

455. Le particolarità che interessano lo stile non sono sempre separabili da quelle che riguardano la grammatica: anzi, i fatti di stile sono il prolungamento, l’esito delle possibilità grammaticali; trasformano queste possibilità in esercizi e la necessità linguistica in gioco. Così l’aplologia deriva da condizioni fonetiche; le finali di parole “sincopate” risultano da tendenze morfologiche, così come i casi di attrazione, da tendenze sintattiche. Alcuni poeti hanno accentuato smisuratamente questi fatti; alcuni soggetti favorivano una mobilità linguistica superiore alla norma.

Si deve tenere conto di due dati a questo proposito: a) i mantra sono costituiti in parte da gruppi di formule che sono capaci di spostarsi da un inno all’altro, da una raccolta all’altra, provocando con la loro partenza e la loro intrusione delle rotture e delle incoerenze che talvolta si riflettono sulla sintassi; b) lo stile è inseparabile dai concetti vedici in generale; le esigenze proprie degli yajus, il vincolo rituale o, soprattutto nell’AS., il vincolo magico, hanno determinato l’uso di certi procedimenti. Nella RS. il trasferimento di immagini dal mondo umano al mondo celeste (e viceversa), la simbologia del sistema, hanno comportato la forma dell’espressione figurata, la scelta delle metafore, il doppio significato di certe parole, persino alcune strutture linguistiche. La pressione religiosa è sottostante agli effetti di stile.

456. Il fatto più evidente (anche se distribuito in modo molto disuguale) è la ripetizione. Intere unità metriche, formule si ritrovano da un’estremità all’altra delle raccolte (2400 ripetizioni riguardanti una singola unità metrica solo nella RS.), talvolta con varianti a volte gratuite, a volte in risposta alle esigenze del nuovo contesto. È importante notare i ritornelli, le introduzioni di strofa concepite in un quadro identico, la ripetizione dei nomi divini (in diversi casi) in ogni strofa di alcuni inni, ecc.

Una volta iniziato un tipo di frase, c’è una tendenza a ripeterlo. Ciò porta alla ripetizione della stessa parola, ad esempio del prefisso (sáṃ sáṃ sravantu síndhavaḥ sáṃ vā́tāḥ sám patatríṇaḥ AS. I 15 1).

Il preverbo dà luogo a giochi più vari: lo stesso verbo ripetuto prima senza, poi con il preverbo (*pāhi pári pāhi I -143 8) o, più spesso, con preverbi diversi che formano eventualmente una sorta di gradazione (úpa dasyanti ápa dasyanti I 435 8 ; analoghi IX 86 43 X 97 -14 AS. VI 134 1) - particolarmente frequente nell’AS. dove vengono creati nuovi vocaboli basati sulla sostituzione di preverbi, come nel caso di *módāḥ pramúdo’bhīmodamúdaś ca yé XI 8 24, ālāpā́ś ca pralāpā́ś cābhīlāpalápaś ca yé 25.

Oppure di parole qualsiasi, come la ridondanza úttarāhám uttara úttaréd úttarābhyaḥ X 145 3, paurám… paúra paurā́ya (con gioco di parole) V 74 4, l’inno finale della RS. basato sulla ripetizione di sám (sa°). Si può qualificare di persistenza morfologica un caso come dū́ṣyā dū́ṣir asi hetyā́. hetír asi menyā́ menír asi AS. II 11 1. In ariprā́ ā́po ápa riprám AS. X 5 24 (“senza contaminazione [sono] le acque, che lontano [da noi] sia la contaminazione…”), le parole sono bilanciate in base alle affinità di forma. L’allitterazione deve rendere conto di nṛtó II 22 4 e nṛtaú X 29 2, e un buon esempio di allitterazioni e rime interne è l’inizio dell’inno X 91.

La rima propriamente detta è più rara, ma non assente. Se abbiamo dadhantu (invece di dadhatu atteso) VII 62 6, è per fare rima con santu; allo stesso modo dadhanti / namanti VII 56 19.

457. Come si può vedere dalla nota precedente, l’associazione fonetica può essere ottenuta, nei casi estremi, mediante creazione di suffissi, e persino mediante creazione lessicale. La forma dívātarāt creata nel 410 è fatta per fare eco a sudárśataraḥ che precede, ṛtāyínī 225 a māyínī. Più audace è invire creato su hinvire V 6 6; vanasáde TS. (VS.) sostituito da vanṛṣade KS. XVII 17 a causa di nṛṣade che precede; minīt 321 secondo vadhīt; cániṣṭhat 54 trā́sāthe 345, ecc. In tā́m ahám̐ sámindhiṣṭa MS. IV 9 25, la terza persona insolita è causata dai due sámindhiṣṭa che la precedono. Questo è ciò che è stato chiamato “perseveranza” grammaticale.

Ancora, gli inizi di versi in sanā́t I 62 9 portano a sánemi; manuṣvát e la successione induce pūrvavát I 31 17, come ní dhīmahi incentiva sám idhīmahi X 16 12 (per la rima); pṛkṣúdhaḥ accanto a vīrúdhaḥ; vāyáva sthopāyáva stha TS. KS.

Non sono fondamentalmente diverse le situazioni in cui la perseveranza si verifica senza che la forma secondaria sia vicina alla forma incitatrice: è il caso, tra molti altri, di iṣídh- 45 trā́sīthām 345 árogaṇam AS., ecc.

Da ciò derivano, in generale, le “formazioni istantanee”, alcune delle quali sono state rilevate durante questo lavoro, con diverse probabilità di certezza; ricordiamo dyávī 262 yādṛ́śmin 292 vāvā́tuḥ 253 níkāman- 163 bhariṣá- 116 návīyān III 36 3 tanyatā́ (I) agrayu- JB. I 81 (sul modello di vājayú-); [dāśat IX 61 22 (di sintassi impossibile) è indotto dal vicino dāśúṣe].

La ripetizione porta a casi tipici di ridondanza, che si esprimono attraverso formule come:

a) del tipo gópatiṃ gónām (“il signore-delle-mucche delle mucche”) X 47 1, con varianti come yajñaír yajñavāhasaḥ I 86 2 tridivé diváḥ IX 113 9 devā́nāṃ devátābhyaḥ TS. I 6 1 p e (sostituzione sinonimica) sudinatvé áhnām VII 88 4; un’altra formula è suśámi śamīṣva VS. 114;

b) del tipo (intensivo) satyásya satyám asi TS. 1 6 1 b (“sei il vero del vero”) che comporta varie modifiche semantiche; una variante è il turno tavástamas tavásām II 33 3, rafforzamento del superlativo.

La particolare preferenza per i regimi “interni” (in particolare l’Ac. 403 c) deriva da questa ossessione per la ripetizione.

Una forma particolare di questa è la concatenazione, che consiste nel collegare strofe consecutive con una parola simile presa da quanto precede, ad esempio IV 51 con asthāt / ásthuḥ 1-2, poi uchántīḥ 2 ripreso 3, quindi samanā́ 8 ripreso 9, infine vibhātī́ḥ 10 ripreso 11.

Le riprese di un verbo personale da parte di un assolutivo, un procedimento successivo molto in voga, sono documentate sin dal Libro X: púnar daduḥ / punardāya 109 6-7; abhivāvṛté / abhivṛ́tya 174 1-2.

458. Una forma di ripetizione è l’antitesi. Appare sia con la ripetizione della stessa parola prima in modo positivo e poi in modo negativo, ad esempio tavásam átavyān VII 100 5, ecc.; oppure con un’espressione diversa che nega ciò che è stato detto inizialmente in modo positivo (più raramente l’opposto come ájītayé ’hataye / svastáye sarvátātaye IX 96 4 “per non essere sconfitto né ucciso / per la salvezza, per l’integrità”).

  1. L’osservazione delle “varianti” porta a constatare numerosi casi di ecolalia, giochi di assonanze; la formula, già sospetta di per sé, dadhánad dhániṣṭhā X 73 1, è apprezzata al suo vero valore quando la si confronta con la formula-sostituto fornita dal MS.: janánaj jániṣṭham: si tratta di abbinare suoni. Ciò che domina nello scambio mánasā śivéna AS. XIII 1 10 / máhasā svéna TB. è stato ottenere, variando la formula, suoni simili: e così in una miriade di casi.
  2. Vi è una frequente ridondante ripetizione di particelle, ad esempio ā́ (381 n. 4); del pronome etico vas (408 n. 1); vedi anche te… táva 399. Un puro pleonasmo è avatūtáye (bis) VI 9 7, che non è affatto eccezionale.

Molti di questi esempi evidenziano fatti di armonia vocalica (eventualmente consonantica): l’armonia fonica, infatti (timbro, quantità, densità sillabica), sembra guidare in molti casi la scelta o almeno l’ordine delle parole, il loro volume rispettivo, il loro equilibrio nella frase. Questo rappresenta una ricerca che è resa molto evidente dalla recitazione solenne del Veda, come viene ancora praticata oggi.

459. La controparte naturale della tendenza alla ripetizione è la tendenza alla variazione. Sul piano grammaticale, qui vanno inclusi i cambiamenti non motivati all’interno del sistema del presente (vedi 331); le variazioni intermodali (vedi 426). In questo contesto, citiamo anche le variazioni del tema per esprimere la stessa forma grammaticale, come píba / pāhi III 35 10, kṛṇávas / kárasi X 16 1-2, kṛṇu / kṛdhi X 85 45, pácāti / pákṣat X 27 18, śravat / śṛṇavat KB. XXVIII 6 (quindi, tra temi del presente e del passato); bíbhratīḥ / bhárantīḥ X 30 13. Variazioni quantitative (nell’ambito dei fatti kṛṇuthā / kṛṇutha VI 28 6 (entrambi prima di una sillaba pesante).

Le finali “syncopate” (vedi 105) hanno l’effetto di alternare desinenza e non-desinenza, quindi di rompere l’uniformità. Per inciso si possono citare casi come mitrótá 153 e altre abbreviazioni (possibili) di composti, come patayán mandayátsahham I 4 7 se la prima parola è patayatsakham; dakṣa kavikrato III 14 7 per kavidakṣa k°. Allo stesso modo, vi è abbreviazione di derivati nella sequenza áśvāvati… góṣu 1 83 1.

In generale, va attribuita alla variazione (indipendentemente dai presupposti linguistici specifici di ciascun fenomeno) gli scambi tra finali -ā / -āni, -ās / -āsas in parole consecutive (da cui deriva l’estensione di tale desinenza al di là di questa contiguità); un esempio tipico è trī́ṃ śatā́ trī́ sahásrāṇi X 52 6.

Infine, le variazioni tra i casi (vedi 416 n.) e cf. V 1 11c, 12 3d, 22 4b VI 21 2c. Le variazioni dell’ordine delle parole (vedi 393).

Variazioni tra composto ed espressione analitica, come vā́jasya sātaú / vā́jasātau; sómasya pītáye/ sómapītaye (a volte nello stesso contesto), ecc.

460. C’è un uso semi-sintattico d’ “attrazione” tipico delle frasi comparative (brevi) di tipo nominale comandate da (apparentemente mai da iva o yathā). Si tratta della costruzione sū́ryo ná cákṣuḥ “come l’occhio del sole”, letteralmente “come l’occhio (cioè, l’occhio che è) il sole” (ma svàr ṇá jyótiḥ IV 10 3 utilizza l’a-flessione di svàr). Gli inni I 65 e 66 sono costruiti su questo processo, alla base concettuale del quale c’è la nota tendenza identificatrice.

A questo fenomeno si aggiunge occasionalmente un’attrazione di numero o genere (puṣṭir ná ranvā́ I 65 5 ““(Agni) piacevole come la ricchezza”), l’anacoluto (vijéhamānaḥ paraśúr ná jihvā́m VI 3 4 “[Agni] che tira fuori la lingua come un’ascia” - ci si aspetterebbe *paraśum) ; l’intreccio è più evidente in śatáṃ vā yáḥ śúcīnāṃ sahásraṃ vā sámāśirām / éd u nimnáṃ ná rīyate I 30 2 “(Indra), che (beve) cento (libazioni) di (soma) puro o mille di (soma) mescolato, (il soma) scorre (in lui come le acque) (verso un basso fondale)” (anacoluto ed ellissi).

Nel verso IX 911 la parola ūrmím appartiene a entrambe le proposizioni. Vedi anche ā́ na ūtíbhir gántā vṛṣṭíṃ ná vidyútaḥ I 39 9 “venite da noi con il vostro aiuto come i fulmini (portano) la pioggia!”; ā́ te hánū… rúhat sómo ná párvatasya pṛṣṭhe V 36 2 “che il soma entri nelle tue mandibole come (cresce) sulla schiena della montagna!” (posizione insolita di ); analogie in 1 88 2, 168 5. Ellissi di in śitā́m gábhastim aśánim I 54 4 “mano affilata come una pietra”.

461. Questi fatti di anacoluto e di ellissi si verificano naturalmente anche al di fuori delle frasi comparative. L’ellissi riguarda preferibilmemte il verbo personale, specialmente in proposizioni non subordinate, e nelle nozioni di movimento. Un esempio è yamó ha jātó yamó jánitvam I 66 8 “è nato come Yama, come Yama (genera) progenie”; analogo in X 88 6 e simili. Bisogna isolare i casi, più numerosi, in cui la presenza di un preverbo è sufficiente (vedi 375 n.) a indicare l’azione, soprattutto quando il verbo è già stato espresso precedentemente; tipico l’uso di in isolamento (prima di dúraḥ) con il significato di “aprire” in VI 30 5, VII 9 2 e altrove.

Il sostantivo è spesso omesso accanto a un epiteto, senza che l’epiteto sia “sostantivato” in ogni caso (come negli esempi citati in 398). Quindi termini comuni come “fiamme” negli inni ad Agni, “flussi” in quelli a Soma, il nome di cavalli, mucche, doni o offerte, sono “sottintesi” quando un epiteto o il contesto li suggeriscono sufficientemente. Per lo stesso motivo, il soggetto è spesso lasciato nell’incertezza, vedi 395 n..

Con vari gradi di probabilità, si è ipotizzata l’ellissi di un participio (come supporto di una proposizione ausiliaria) in I 54 5a, III 35 lb, VIII 1 18b, 46 26c, ecc.

L’ellissi può essere un mezzo comodo per ottenere l’ambiguità o l’oscuramento semantico spesso cercati.

462. Casi sommari di anacoluto sono stati descritti nella frase relativa 447 (altri nella frase comparativa 460). L’anacoluto, che può essere il risultato di un trasferimento di formule, è probabile in alcune occorrenze del participio “pendens” - almeno se si vuole evitare la nozione scomoda del participio predicato - enā́ vayám… ánu yóniṃ devákṛtaṃ cárantīḥ / ná vártave prasaváḥ III 33 4 “così, procedendo lungo il letto fatto dagli dèi,… (il nostro corso) non può essere fermato”. C’è giustapposizione di due formule non aggiustate, con uno spostamento da una costruzione all’altra, in índrasya vṛ́ṣṇaḥ… marútāṃ śárdha ugrám / ghóṣo devā́nāṃ jáyatām úd asthāt X 103 9 “da Indra il (dio) maschio… il clamore delle divinità vincitrici si è elevato… la potente schiera dei Marut”; vṛtrā́ya hántave (formula comune) è accoppiato con l’Ac. vavrivā́ṃsam (che emana da IV 20 2 o simile) nel verso IX 61 22. Invece di anacoluto, in alcuni casi (come in III 33 4) si potrebbe parlare di una frase incompiuta e di una parentesi.

  1. Per analogia con le finali “sincopate”, troviamo práṇītiṣūtá práśastíḥ VIII 6 22 (= práśastiṣu). C’è contaminazione tra il V. devīḥ e la formula yā́ś ca devī́ḥ, che conduce a yā́ś ca devīḥ VIII 80 10 (il V. devāḥ precede); gúhā cárantam… ná gúhā babhūva III 1 9 (dove cárantam è al posto di cáran).
  2. Ipallage, uśató ánu dyū́n (per uśaté) I 71 6; analogo in 80 4c, 153 4 ab (incerto).

463. Teoricamente si potrebbe considerare il tipo sū́ryo ná cákṣuḥ 460 come la scissione di un composto *sū́ryacakṣur ná. In altri casi, si può parlare con maggiore o minore certezza di “split-compounds”, cioè di un procedimento stilistico che differisce certamente da uno stato precompositivo autentica (come si trova qua e là per i bahuvrīhi 186). Esempi di questo genere sono máno jūtíḥ VS. II 13 “velocità del pensiero” (vedi anche máno jáviṣṭham citato in 404), purú ścandrám III 31 15, hṛdá ā́ …asmát I 60 3, forse śitā́m… aśánim citato in 460.

Un altro fenomeno semi-grammaticale e semi-stilistico è la questione delle finali “syncopate” 105.

L’aplologia di parola è stata descritta 77. Da una parola all’altra ci sono numerosi casi di aplologia, come samudréṇa, che dovrebbe essere letto come samudréṇa ná (piuttosto che samudré ná) III 36 7, múhu kā́ cid (= muhukā́ kā́ cid) IV 20 9 (ciò che elimina l’avverbio múhu), ā́po náptre (per ā́po apā́ṃnáptré) II 35 14, gnā́vaḥ (per gnā́[h]gnāvaḥ) II 1 5, ajuryamur ajuryáṃ yamur) V 6 10; vedi anche áthā na ubháyeṣām amṛta mártyānām I 26 9 “tra i due tipi di noi (cioè tra gli immortali e) i mortali, O immortale!”; analogie in I 61 7d, 116 11 d, 128 6a, 143 3c IV 8 8a VII 6 Id X 7 lb. Inoltre, ci sono diversi casi di duali “ellittici” da considerare in questa categoria. È innegabile che si tratti di fenomeni artificiali, spesso arricchiti da giochi di parole.

464. L’ asindeto è un processo grammaticale di principio e del tutto normale, persino più comune dell’uso di particelle di coordinamento, indipendentemente dalla frequenza di queste ultime. Compare non solo in ciò che normalmente potrebbe essere espresso attraverso un dvandva, come váruṇa mítra 393, pitré mātré, dvipác cátuṣpat, íṣam ū́rjam, ma ben oltre e nella maggior parte delle categorie grammaticali (anche se meno comune nel verbo rispetto al nome). Portato all’estremo, l’asindeto può diventare un espediente stilistico, consistente ad esempio nel mettere in sorprendente equivalenza termini che dovrebbero essere in rapporto di dipendenza, kavíḥ… dhī́ḥ I 95 8 “il poeta, il suo pensiero”, ví rā́ya aurṇod dúraḥ I 68 10 “aprì le ricchezze, le porte (che conducono a esse)”, e forse dúvo gíraḥ I 14 1 “i canti (di) omaggio”.

  1. Anche quando è presente una particella di coordinamento, abbiamo ugualmente váyaś ca viśve devā́so amadann ánu, tvā I 103 7 “tutti gli dèi si sono rallegrati di te e della tua forza”.
  2. Il composto con parte anteriore determinante yogakṣemá- (“possesso delle cose acquisite”) è risolto in kṣéme … yóge passim; allo stesso modo, rāyaspoṣa° YV. in póṣāya… rāyé I 142 10.
465. La parentesi è anche, nelle sue estensioni, un fatto di stile, la cui origine risale in parte ai trasferimenti di formule. Ad esempio: daívyā hótārā prathamā́ puróhita ṛtásya pánthām ánv emi sādhuyā́ / …īmahe X 66 13 “i due hotṛ divini, i primi sacerdoti — vado direttamente lungo il sentiero dell’Ordine — noi li imploriamo”: il pāda parentetico proviene da I 124 3 e vedi anche V 80 4. Un esempio di parentesi emotiva è *vidyún ná yā́ pátantī dávidyod bhárantī me ápyā kā́myāni jániṣṭo apó náryaḥ sújātaḥ prórváśī tirata dīrghám ā́yuḥ X 95 10* “quella che, volando come il lampo, ha brillato in alto, portandomi ciò che desideravo, l’ondina —un nobile eroe è nato dalle acque —, possa Urvaśī prolungare lontano la mia vita!”. Ma in hayé jā́ye mánasā tíṣṭha ghore vacāṃsi miśrā́ kṛṇavāvahai nú, ibid. 1 (“vieni, donna, col pensiero — fermati, o crudele — mescoliamo i nostri propositi!”, è l’ordine delle parole — anch’esso emotivo — che crea la sensazione di una parentesi.

466. Esiste un uso quasi illimitato dei “doppi significati”, ma all’interno del contesto generale delle coincidenze cosmiche/rituali o macro/micro-cosmiche: si tratta di fatti di pensiero, non di forma. Non è necessario approfondire ulteriormente questi casi qui. Inoltre, vengono citati alcuni esempi di “śleṣa” di tipo classico. Un esempio tardivo è ajô’sy ájāsmád aghā́ dvéṣāṃsi TĀ. VI 10 2 “sei una capra, scaccia da noi le cattive inimicizie!” (ibid. yavó ’si yaváya, nello stesso senso): è un semplice gioco di parole, come se ne trovno probabilmente già nelle RS, in jarethe jaraṇéva X 40 3 e jaritar jārám X 42 2 (e in molti altri passaggi con il gruppo fonico jar-jār-).

In generale, bisogna considerare l’ambiguità intrinseca di alcuni termini, come arí- che appare in contesti sia “favorevoli” che “sfavorevoli”, o uruṣy- citato in 440 (vedi áditim uruṣya che sembra significare contemporaneamente “proteggi l’innocenza!” e “rimuovi la non-possessione!”, con un doppio significato di áditi-, come in molti altri passaggi). Questi fatti possono essere spiegati in vari modi. Alcuni di essi sono legati all’eufemismo, come la nozione di árāti- “assenza di dono”, a cui è reso omaggio in AS. V 7 3. Un esempio complesso, che coinvolge anche delle allitterazioni, è indro manyúm manyumyò mimāya VII 18 16 “Indra ha distrutto il pensiero (cattivo) del distruttore del pensiero (buono)”.

Doppi significati in ví… tanuhi X 146 6 che significa contemporaneamente (a seconda del contesto) “tendi” e “distendi”; ā́-DHĀV- che può significare sia “correre” che “pulire” (V 64 7); drapsín- che significa sia “gocciolante di pioggia” che “portante bandiera” (I 64 2); jaráyantī che può significare sia “risvegliando” che “facendo invecchiare” (I 48 5); dadruḥ che può significare sia “si aprirono” che “corsero” (IV 49 5). C’è anche il caso di girijā́ V 87 4, dhánvan VI 34 4, ajyáse VI 2 8; dhénāḥ, che sembra significare sia “canti” che “mucche” (X 43 6), a causa di dhenú-.

In effetti, siamo in un campo sfuggente e difficile da catturare. Sfruttare troppo a fondo questi doppi significati metterebbe in discussione le basi grammaticali del Veda. Quello che, nonostante tutto, rende plausibili la maggior parte delle sovrapposizioni semantiche che sono state osservate (e molte altre che rimangono da scoprire) è il fatto che nei mantra vedici, la forma delle parole, le loro assonanze, i valori fonetici che mettono in gioco, sono definitivamente più importanti dell’autenticità linguistica della loro etimologia o derivazione.






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